di Silvia Tripodi
Tra lo scrivere sul trauma e lo scrivere
il trauma, esiste di solito un rapporto di contrappunto: il primo mette
l’accento sull’oggettività, il secondo invece sulla soggettività.
Rispettivamente oggettivazione e consapevolezza, riorganizzazione degli
eventi di fronte a una forma dialogica; processo cognitivo il primo,
affettivo il secondo; questa distinzione può aiutarci a capire perché
nel trattamento dei passati traumatici la letteratura abbia preceduto la
storiografia. Nonostante l’unilateralità, le testimonianze e la
memorialistica, utilizzando uno stile ibrido, si trovano più vicine alla
realtà[1].
Dominick La Capra, storico e sociologo post-strutturalista, distingue
tra lo «scrivere sul trauma» (writing about trauma) e lo «scrivere il
trauma» (writing trauma) Scrivere il trauma significa acting out, messa in scena, affioramento del trauma. Parafrasando La Capra, possiamo dire che analogamente tra lo scrivere sul nulla e lo scrivere il nulla,
esiste un rapporto di contrappunto, dunque mi ripeto: il primo mette
l’accento sull’oggettività, il secondo sulla soggettività. E se la
letteratura ha con più efficacia riportato, descritto, eventi
traumatici, precedendo la documentazione storica, o meglio,
riconducendola all’uomo e alla sua misura, la cinematografia è
paragonabile derridianamente, all’ultima casa di Freud che diviene
museo, archivio di immagini, sequenze, accadimenti, memoria e passaggio
dall’ambito privato a quello pubblico, dalla intimità alla
estraniazione, o viceversa.
Il cinema compie una sorta di
congiunzione tra ciò che è oggettivo e ciò che è soggettivo, tra il
pubblico e il privato. Esso al pari della letteratura è diversamente efficace
nel narrare fatti, eventi, che intrecciano il mito o l’archetipo o
anche solo nel documentare pezzi di realtà. Ed anche nel reportage, che è
la massa d’azione ritenuta più oggettiva, c’è una percentuale sottesa
di intenzionalità, espressa a gradi in virtù del montaggio. Ora,
altrettanto intenzionalmente utilizzerò tre film per descrivere le
modalità di rappresentazione del trauma e quelle di rappresentazione del
nulla, o meglio di ciò che al nulla è aderente: porzioni, scarti di
nulla, rappresentati e rappresentabili con la macchina-cinema. “Una
specie del nulla”, ovvero l’alienazione come condizione di disagio o di
salvezza, come rapporto in apparenza dialetticamente inconciliabile tra
ciò che dal-di-fuori- investe l’uomo e lo annichilisce, e ciò che è
nell’uomo, ossia la sua propria natura, il suo essere, incompiuto e
irrisolto:
La parola (Ordet) di Carl Theodor Dreyer, Taxi Driver di Martin Scorsese e Shame
di Steve McQueen. Nel primo, il regista danese narra dei Borgen. Viene
descritta la crisi che attraversa ogni membro della famiglia: il padre,
il patriarca Morten vive nel disagio e nel dubbio il suo rapporto con
Dio. Il primogenito Mikkel è fermamente ateo. Il secondo, Johannes
studioso della teologia di Kiekegaard vive un delirio mistico che lo
porta a credere di essere la reincarnazione del Messia. Infine il terzo,
Anders sta per sposare una ragazza, ma i rapporti con il padre della
giovane sono difficili a causa delle diverse confessioni religiose. La
figura che diviene poi il fulcro della storia è quella di Inger, moglie
di Mikkel, madre di due bambine ed incinta di un terzo figlio, il
maschio tanto desiderato da Morten, il nonno patriarca. Ma ecco la
disgrazia: il bambino nasce morto, e dopo poche ore di agonia, muore
anche la madre. La tragedia che colpisce intimamente ogni membro della
famiglia, ha la funzione di appianare i conflitti e le liti e fa
rinsavire Johannes. Ma l’evento traumatico non è nel film tanto la
morte, quanto l’avvenimento sconvolgente che accade dopo: la
resurrezione di Inger, il miracolo chiesto e ottenuto dalla fede di
Johannes. La caratteristica specifica del trauma – afferma Perniola – è
analoga a quella del miracolo; essi hanno in comune il fatto di
sottrarsi a ogni spiegazione razionale. Tanto nel miracolo quanto nel
trauma, ci troviamo non soltanto davanti a un fatto di difficile
comprensione, ma dinanzi a un messaggio. Essi contengono un messaggio
che non può essere detto in parole, che resta perciò essenzialmente
enigmatico: nei miracoli e nei traumi c’è chiaramente l’intenzione di
trasmettere a noi personalmente qualcosa, ma non sappiamo che cosa[2].
Nell’opera di Dreyer, trauma e miracolo, sono la causa-effetto
dell’intero film. Rappresentano due momenti della narrazione filmica che
raggiunge il suo apice attraverso il prodigio della resurrezione. Il
fatto diviene in qualche misura mito, e come e più del mito, restituisce
allo spettatore la quieta sorpresa di un finale salvifico. La corsa de
La Parola non s’ingolfa in un epilogo formalmente didascalico ma in una
conclusione che trascende il linguaggio-immagine. Il fatto rivelato
attraverso la scena è traumatico in quanto lascia sgomenti e dunque
senza parole, senza un ulteriore fraseggio se non quello inspiegabile e
credibilissimo di una vita che ritorna dalla morte.
Questa specie di fenomenologia filmica,
di odissea modulata su un anti-climax, decresce ora in altre due
pellicole, Taxi driver e Shame. In entrambe viene narrata una certa
qualità del nulla, una soggettività che non trova nell’oggettivo una
stabile forma di apparenza. Un nulla che si sostanzia in un codice di
immagini ipnoticamente ricorsive, una massa di tensioni
crescenti/decrescenti, ritmicamente centrate in un puncutm
estraneo, de-centrate dunque e che non hanno collocazione nemmeno nello
spettatore, anch’esso scarto occasionale. L’impossibilità di trovare un
punto di congiunzione effettivo del nulla inteso come sostanza empatica,
emozionalmente elaborata dal medium delle immagini, della parola, della
musica, della memoria, fa del cinema la negazione in fieri dell’essere,
un essere che carnalmente non coincide solo con l’uomo, ma
necessariamente, con la macchina-cinema e con la macchina-uomo. In Taxi
driver l’alienazione insonne, la solitudine, la sfiducia paranoica del
protagonista troverà la sua ragion d’essere nel paradosso. È lo
psicodramma di Travis Bickle, reduce del Vietnam, poi tassista
newyorkese che attraverso il suo sguardo di non dormiente vede tutta la
decadenza della città, dell’America intera; in questo senso di vuoto, di
progressivo estraniamento, Bickle dà sfogo alla sua rabbia omicida, che
lo riscatta dalla propria follia. Ma forse ciò avviene solo in
apparenza, poiché Travis probabilmente rappresenta il prescelto per
incarnare un ideale di giustizia impossibile, ascetico quasi, ideale che
sembra derivare dalle manovre di una società che se non lo condanna,
tuttavia lo seda, lo quieta, lo narcotizza e narcotizza nuovamente il
giudizio dell’uomo sull’uomo, completando un disegno di dipendenza e
occultamento opportunamente studiato e opportunisticamente attuato
durante le vicende di una campagna elettorale nella quale emergono il
malcontento e la delusione di chi ha servito il proprio Paese in un
conflitto, quello vietnamita, che tuttora è l’emblema di come le logiche
di potere soverchino la morale. Il nulla, inteso come occasione
antipolare degli eventi, nella sintassi di Scorsese trova la propria
collocazione, non solo nel disagio dirompente del protagonista, ma,
ancora una volta come in Ordet, nel finale.
L’anti-climax, viaggio verso un nulla
fagocitante il linguaggio e i codici che lo rappresentano, ha in Shame
la finale punta all’acuto che si schianta. Il regista racconta la
compulsività, la dipendenza sessuale e l’incapacità di stabilire legami
affettivi duraturi attraverso l’uso della nudità, anafora figurata e
figurante, apparenza di una superficie che viene svelata a partire da un
freddo interno metropolitano. L’ordine catastrofico della dimora del
protagonista Brandon, già nella sua asettica staticità degli idoli
tecnologici, richiama il progressivo sgretolamento intimo di lui e della
sorella, con la quale egli è torbidamente in conflitto. Fragile e tesa
al nulla quanto lui, sarà poi lei a sanare in parte un’affettività
decadente e malata, attraverso l’innocente debolezza di un atto estremo,
che la vede tragicamente e paradossalmente esposta alla vita proprio
mentre invece cerca la morte, che per lei è chiaramente una possibilità
del nulla. L’indifferenza ed il rifiuto del fratello, sono il paradigma
di come il trauma circolare del niente, descriva una spirale nella quale
una sessualità deformata, è solo il pretesto per definire l’ostacolo
dell’ingranaggio di un mondo (che è tragicamente ancora nell’essere)
nel quale si accostano psicopatologicamente dolcezza e brutalità,
ri-definendo il senso di un’angoscia che non vuole o non può più
affrancarsi da se stessa, e che si modula e persiste nei toni del grigio
e del ghiaccio. Viene a realizzarsi in qualche modo la poetica “del
medio stare”, in cui la libertà dell’individuo è neutramente soggiogata
dalla instabilità psichica che investe persino gli oggetti oltre che gli
uomini. Ed è in questa monade in cui essere e mondo s’infrangono, che
il nulla viene a materializzarsi ora come fatto, ora come evento
filmico. Una negazione che non solo è percepita ma che si auto
percepisce e che si esamina oltre che essere esaminata, perché come dice
Valéry : “Si tratta di passare da zero a zero. – E’ la vita –
Dall’incosciente e dall’insensibile all’incoscienza ed
all’insensibilità. Passaggio impossibile a vedersi, poiché esso passa
dal vedere al non vedere dopo esser passato dal non vedere al vedere. Il
vedere non è l’essere, il vedere implica l’essere”.
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