L'amore è un cane che viene dall'inferno: letteratura, arte & videodrome [ un libriccino ]
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lunedì
Cinema strumento di poesia

di Corrado Benigni
La
creatura, quali siano gli occhi suoi, vede/ l’aperto. Soltanto gli
occhi nostri son/ come rigirati, posti tutt’intorno ad essa,/ trappole
ad accerchiare la sua libera uscita.
R.M. RILKE, ELEGIE DUINESI
“Il
cinema è strumento di poesia con tutto ciò che questa parola può
contenere di significato liberatorio, di sovversione, di soglia
attraverso cui si accede al mondo meraviglioso del subconscio”, ha
scritto Luis Buñuel.(1)
Tanto cinema “è” poesia. I tramonti di John Ford, i primi piani di
volti e corpi di Ingmar Bergman, la surreale follia di Peter Greenaway,
per citare solo alcuni esempi. La fascinazione della settima arte passa
necessariamente attraverso una visione lirica del mondo, senza per
questo doversi a tutti i costi contrapporre ad una concezione
“realistica” del narrare per immagini.
Se da un punto di vista rigorosamente letterario il cinema sembra avere più parentela con la prosa (perché tanti film sono tratti da opere di narrativa, o più semplicemente perché alla base c’è sempre “una prosa”, la sceneggiatura), è altresì vero che le suggestioni immaginarie di molti registi si nutrono di poesia, magari senza citarla direttamente bensì “ricreandola” stilisticamente, proprio come i grandi autori citati sopra. Vi è un particolare mondo, appartenente alla dimensione umana, che si esprime solamente attraverso immagini significanti: “il mondo della memoria e dei sogni”, ha detto Buñuel.(2) Ecco dunque la corrispondenza di sensibilità tra cinema e poesia: la natura fortemente onirica di questi due linguaggi. Sulla stessa linea, secondo Pasolini “lo strumento linguistico su cui si basa il cinema è di tipo irrazionalistico: e questo spiega la profonda qualità onirica del cinema”.(3)
Se da un punto di vista rigorosamente letterario il cinema sembra avere più parentela con la prosa (perché tanti film sono tratti da opere di narrativa, o più semplicemente perché alla base c’è sempre “una prosa”, la sceneggiatura), è altresì vero che le suggestioni immaginarie di molti registi si nutrono di poesia, magari senza citarla direttamente bensì “ricreandola” stilisticamente, proprio come i grandi autori citati sopra. Vi è un particolare mondo, appartenente alla dimensione umana, che si esprime solamente attraverso immagini significanti: “il mondo della memoria e dei sogni”, ha detto Buñuel.(2) Ecco dunque la corrispondenza di sensibilità tra cinema e poesia: la natura fortemente onirica di questi due linguaggi. Sulla stessa linea, secondo Pasolini “lo strumento linguistico su cui si basa il cinema è di tipo irrazionalistico: e questo spiega la profonda qualità onirica del cinema”.(3)
Il
cinema come la poesia è una forma di espressione più che di
comunicazione. Tuttavia tra i due linguaggi il rapporto è disomogeneo.
Forse ciò che veramente li accomuna è che alla base di questi due
linguaggi c’è il tentativo di scandagliare – da prospettive diverse – il
problema della visione, di cercare uno spazio di visione, una visione
“esistenziale”, in quel gioco di ombre che fa scoprire che tutto il
mondo è metafora di qualcosa, e da qui l’urgenza di “dare perimetro a
ciò che è smisurato” come scrive Milo De Angelis nel suo saggio su Fuoco fatuo
di Louis Malle. Questo bisogno è ancora più sentito nell’uomo
contemporaneo, in questo tempo di “mancanza di visione”, dove a un
eccesso di immagini si contrappone spesso l’incapacità di comprendere il
reale, l’assenza di quell’attitudine dello sguardo che tende a vedere
l’inclinazione del mondo, di cosa son fatte le cose e le persone, e dove
vanno, che è poi il senso del nesso tra particolare e infinito.
mercoledì
Richard Yates: nessuna pietà
15 ottobre 2012 • pubblicato da minimaetmoralia
Dalla prefazione di Paolo Cognetti a Undici solitudini di Richard Yates
(Immagine: Edward Hopper.)
di Paolo Cognetti
Sul tavolo di Richard Yates, sopra le foto di figlie avute da donne
diverse, sopra bottiglie e portacenere e pagine scritte e stracciate e
riscritte, è stata appesa per anni questa frase: «Gli americani sono
sempre stati inconsciamente convinti che tutte le storie avranno un
lieto fine». Sono parole di Adlai Stevenson, la grande speranza
democratica degli anni Cinquanta: candidato due volte alla presidenza e
due volte sconfitto da Eisenhower, e infine superato da un concorrente
dotato di carisma, gioventù e bellezza, John Fitzgerald Kennedy. La
frase che Yates amava, quella su cui meditava scrivendo, è l’uscita di
scena di un perdente: uno che avrebbe potuto cambiare le cose, ma non ce
l’ha fatta, uno la cui storia non ha avuto nessun lieto fine.
Gli anni Cinquanta, l’alba dell’America contemporanea, sono l’epoca in cui questo libro fu composto. Le prime Solitudini
comparvero in rivista all’inizio del decennio, ma furono raccolte e
pubblicate solo nel 1962, in seguito al buon successo del primo romanzo
di Yates, Revolutionary Road. Idealmente, questo è perciò un
libro d’esordio: una raccolta di racconti scritti tra i venti e i
trent’anni, in cui sono contenuti molti semi che germoglieranno nei
romanzi successivi.
New York nel dopoguerra è un’isola brulicante. In città la giovane
borghesia si mescola a intellettuali e artisti esuli dall’Europa, e i
reduci appena sbarcati trasformano le strade in una festa mobile: notti
in bianco, scorribande innaffiate dal whisky e ritmate dal jazz, donne
da conquistare. È la stessa città ubriaca descritta vent’anni prima da
Fitzgerald, che di Yates è il maestro, nel racconto “May Day”:
C’era stata una guerra combattuta e vinta, e la grande città del
popolo conquistatore era addobbata con archi trionfali e vivida di fiori
bianchi, rossi e rosa lanciati dalla folla. Nella grande città non
c’era mai stato tanto splendore, poiché la guerra vittoriosa aveva
portato con sé l’abbondanza, e i mercanti avevano affollato la metropoli
insieme alle loro famiglie, venendo dal Sud e dall’Ovest, per godersi i
lussosi banchetti e assistere ai festeggiamenti. Un giorno dopo l’altro
le fanterie sfilavano nei viali e tutti esultavano, perché i giovani
reduci erano puri e coraggiosi, con denti sani e gote rosa, e le giovani
donne del paese erano vergini e belle.
Anche Yates è tornato dalla guerra. Ha una lieve forma di tubercolosi
e incurabili sogni di gloria. In pochi anni, dopo il ricovero e la
dimissione dal sanatorio, percorre tutta la discesa agli inferi del
poeta romantico: si sposa, ha una figlia, raccoglie i soldi per
ripartire, viaggia tra Parigi e Londra senza vedere Parigi né Londra ma
rinchiudendosi nelle camere in affitto a scrivere i suoi racconti, torna
a New York squattrinato e deluso e trova lavoro nella pubblicità, nelle
riviste, nelle case editrici, comincia a scrivere romanzi e a ricevere
rifiuti, subisce le prime crisi depressive e continua a bere sempre di
più, viene lasciato dalla moglie e infine festeggia il suo esordio
letterario. Meglio di qualsiasi riassunto biografico, quest’epoca è
descritta nell’ultimo racconto del libro, “Costruttori”, un ritratto
dell’artista da giovane in cui l’aspirante scrittore è fratello di altri
eroi autodidatti della letteratura americana, da Arturo Bandini a
Martin Eden: un appartamento sudicio, una serie di lavori frustranti e
un matrimonio a rotoli, il fondo cercato e toccato in nome della fede
nel proprio talento. Tanti altri episodi di quel periodo sono
rintracciabili in Undici solitudini: a trentasei anni, il giorno dell’uscita del libro, Yates aveva alle spalle un’intera vita da raccontare.
martedì
IL CERCHIO NON È ROTONDO

di
Federica Casini
–
Anankè della violenza, eterno ritorno della storia e
conversione romanzesca in “Before the rain” di Milcho Manchevski –
«It
is the time just before rain, the time when the flies bite like kamikaze, when
the birds fly low and the sky hangs overhead black, heavy and expectant, when
all the colors are washed in gray, subdued and intense, yet punched through by
radiant hues.
It's about to burst.
A heavy sense of expectation, of lowering, of time just before something
large overwhelms the picture, the frame, the rhythm, the colors, the light, the
music and the characters.
Still, the story moves fast, faster than words.» (Milcho Manchevski)
«C'è odore di pioggia» 1,
l'odore acuto e inconfondibile che il temporale imminente sprigiona e diffonde
sulle cose. Un senso di attesa opprimente, di
ancestrale incombenza pervade l'aria, soffocante, carica di pesanti incertezze,
che «sa di sangue». Nubi minacciose dominano l'orizzonte, gonfie d'acqua e di
cupi presagi. «La gente tace» 2, volge
gli occhi verso l'alto ad interrogare un cielo spettrale, plumbeo. Ormai «Sta
per piovere». Già i tuoni risuonano in lontananza, avvisaglie inequivocabili
della tempesta che si sta abbattendo sui Balcani. Ma «Il tempo non muore», ammonisce enigmaticamente il
vecchio monaco ortodosso. Esso non segue i ritmi di una temporalità “storica” impazzita,
dove una tartaruga è martirizzata dentro il circolo di fuoco tracciato da
bambini sadici. «Il cerchio non è rotondo» continua il padre. Come dire: l'Anankè ineluttabile della violenza, «la caparbietà
“retributiva" dell'odio» 3, che
pare decretare l'inesorabile ripetersi degli eventi, non è eterna; forse il
cerchio fatale non è destinato inevitabilmente a chiudersi….
Un cerchio che non si
chiude, un eterno ritorno che non sarà mai uguale a se stesso: Before the rain di Milcho Manchevski è
l'illustrazione più compiuta di questo teorema
paradossale, il cui senso è racchiuso in una frase magica come un arcano. Nel tempo che precede la pioggia, tempo sospeso e gravido di
conseguenze, tre personaggi incrociano drammaticamente i loro destini: una
ragazza albanese, accusata di aver ucciso un pastore macedone, inseguita dai
parenti del defunto ma assassinata per mano fraterna; il marito di una photoeditor inglese trucidato in un ristorante in seguito
ad un'esplosione terroristica di matrice etnico-religiosa;
un fotografo di guerra macedone, amante della donna, che torna al paese natale
dopo sedici anni, pronto a rischiare la vita per salvare dalla persecuzione dei
cugini proprio quella ragazza albanese…
La trama del film di Manchevski, un «racconto in tre parti» ( «parole», «volti»,
«immagini» ) in cui ogni episodio si incastra col
successivo fino a produrre una struttura non cronologica ma circolare, si
sviluppa nell'intervallo di tempo che separa gli avvenimenti narrati
dall'arrivo della pioggia. Zamira, Nick, Alexander si rincorrono
attraverso la loro morte e si ritrovano in un finale tragico in cui si dipana
la ragnatela che teneva uniti i fili di quelle vite all'apparenza disparate. Il
sangue, accanto all'acqua, bagna in modo indelebile l'opera prima di Manchevski. Il sangue come epifania della
violenza, della vendetta («Il sangue chiama sangue»), della morte; ma anche
simbolo di riconciliazione e vita.
Film costruito, come
racconta il suo autore, attorno ad una «sensazione di angoscia,
di nuvole che si addensano nel cielo» 4 provata
al suo ritorno in Macedonia («C'era questa sensazione di qualcosa di grave che
stava per accadere, qualcosa che incombeva nell'aria» 5) Before the rain non
è un documentario sul conflitto nei territori della ex Jugoslavia ma una
«riflessione sulla guerra». La Macedonia raffigurata nel lungometraggio è infatti un luogo localizzato ma a-geografico, solo
accidentalmente situato ai giorni nostri, estraneo ad ogni determinata
collocazione spazio-temporale. «In sintonia con l'opzione
mitologico-antropologica e il bizzarro meccanismo
temporale del film, Manchevski fa una scelta di stile
non realistica» 6.
La sua terra d'origine diviene teatro di una vicenda fittizia (la guerra di cui
il regista narra le efferatezze in realtà non c'è mai stata),
7 dai
contorni mitici . E del mito, intriso del sangue delle
origini, il film mette in scena la “sapienza” riguardo alle “soluzioni” che gli
uomini da sempre forniscono al problema del controllo della violenza: il sapere
dell'omicidio fondatore (e della sua interminabile ripetizione nella storia
mediante il sacrificio), quando un assassinio riportò per la prima volta la
pace sulla comunità in preda al caos autodistruttivo. La tartaruga, animale che
non riesce ad abbracciarsi perché fa tutt'uno con una corazza dalla quale ormai
non si distingue più 8,
incarna il destino dell'uomo e del fragile edificio della cultura umana 9, che va
in frantumi non appena la violenza abbatte i precari confini stabiliti
dall'ordine sociale e politico. Manchevski non
consegna allo spettatore un reportage sulla guerra nei Balcani,
non attualizza ma torna indietro nel tempo, sposta o meglio riporta il tema del
conflitto alle sue origini per far rivivere «l'evento storicamente fondante il
paradigma sacrificale» 10e
riflettere sulla logica che soggiace da sempre ad «ogni fronteggiarsi in odio e vendetta di uomo a uomo, di gruppo a gruppo» 11. La
storia narrata nel film è al tempo stesso lontana e vicina, senza età,
allegoria della tragedia umana di ogni epoca: «Anche se, inevitabilmente tutti lo interpretano come un film
di denuncia sulla situazione attuale, io lo considero soprattutto un film
simbolico, metaforico. Quello che racconto potrebbe succedere
in qualunque parte del mondo» 12
afferma il cineasta.
lunedì
Proscenio: o del golfo mistico,

mi destai alla siccità e le felci erano morte,
le piante in vaso gialle come grano;
la mia donna era sparita
e i cadaveri dissanguati delle bottiglie vuote
mi cingevano con la loro inutilità;
c'era ancora un bel sole, però,
e il biglietto della padrona ardeva d'un giallo caldo
e senza pretese; ora quello che ci voleva
era un buon attore, all'antica, un burlone capace di scherzare
sull'assurdità del dolore; il dolore è assurdo
perché esiste, solo per questo;
sbarbai accuratamente con un vecchio rasoio
l'uomo che un tempo era stato giovane e,
così dicevano, geniale; ma
questa è la tragedia delle foglie,
le felci morte, le piante morte;
ed entrai in una sala buia
dove stava la padrona di casa
insultante e ultimativa,
mandandomi all'inferno,
mulinando i braccioni sudati
e strillando
strillando che voleva i soldi dell'affitto
perché il mondo ci aveva tradito
tutt'e due.
DA It Catches My Heart in Its Hands
(Poems 1955-1963)
Charles Bukowski
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