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lunedì

Ô temps-collage: Guy Garnier

Ô temps-collage 




Cinema strumento di poesia


26 gennaio 2010
Pubblicato da  

di Corrado Benigni

La creatura, quali siano gli occhi suoi, vede/ l’aperto. Soltanto gli occhi nostri son/ come rigirati, posti tutt’intorno ad essa,/ trappole ad accerchiare la sua libera uscita.
 
R.M. RILKE, ELEGIE DUINESI


“Il cinema è strumento di poesia con tutto ciò che questa parola può contenere di significato liberatorio, di sovversione, di soglia attraverso cui si accede al mondo meraviglioso del subconscio”, ha scritto Luis Buñuel.(1) Tanto cinema “è” poesia. I tramonti di John Ford, i primi piani di volti e corpi di Ingmar Bergman, la surreale follia di Peter Greenaway, per citare solo alcuni esempi. La fascinazione della settima arte passa necessariamente attraverso una visione lirica del mondo, senza per questo doversi a tutti i costi contrapporre ad una concezione “realistica” del narrare per immagini.
Se da un punto di vista rigorosamente letterario il cinema sembra avere più parentela con la prosa (perché tanti film sono tratti da opere di narrativa, o più semplicemente perché alla base c’è sempre “una prosa”, la sceneggiatura), è altresì vero che le suggestioni immaginarie di molti registi si nutrono di poesia, magari senza citarla direttamente bensì “ricreandola” stilisticamente, proprio come i grandi autori citati sopra. Vi è un particolare mondo, appartenente alla dimensione umana, che si esprime solamente attraverso immagini significanti: “il mondo della memoria e dei sogni”, ha detto Buñuel.(2) Ecco dunque la corrispondenza di sensibilità tra cinema e poesia: la natura fortemente onirica di questi due linguaggi. Sulla stessa linea, secondo Pasolini “lo strumento linguistico su cui si basa il cinema è di tipo irrazionalistico: e questo spiega la profonda qualità onirica del cinema”.(3)
Il cinema come la poesia è una forma di espressione più che di comunicazione. Tuttavia tra i due linguaggi il rapporto è disomogeneo. Forse ciò che veramente li accomuna è che alla base di questi due linguaggi c’è il tentativo di scandagliare – da prospettive diverse – il problema della visione, di cercare uno spazio di visione, una visione “esistenziale”, in quel gioco di ombre che fa scoprire che tutto il mondo è metafora di qualcosa, e da qui l’urgenza di “dare perimetro a ciò che è smisurato” come scrive Milo De Angelis nel suo saggio su Fuoco fatuo di Louis Malle. Questo bisogno è ancora più sentito nell’uomo contemporaneo, in questo tempo di “mancanza di visione”, dove a un eccesso di immagini si contrappone spesso l’incapacità di comprendere il reale, l’assenza di quell’attitudine dello sguardo che tende a vedere l’inclinazione del mondo, di cosa son fatte le cose e le persone, e dove vanno, che è poi il senso del nesso tra particolare e infinito.

mercoledì

Richard Yates: nessuna pietà



15 ottobre 2012 • pubblicato da minimaetmoralia 
 

Dalla prefazione di Paolo Cognetti a Undici solitudini di Richard Yates  
(Immagine: Edward Hopper.)




 di Paolo Cognetti

Sul tavolo di Richard Yates, sopra le foto di figlie avute da donne diverse, sopra bottiglie e portacenere e pagine scritte e stracciate e riscritte, è stata appesa per anni questa frase: «Gli americani sono sempre stati inconsciamente convinti che tutte le storie avranno un lieto fine». Sono parole di Adlai Stevenson, la grande speranza democratica degli anni Cinquanta: candidato due volte alla presidenza e due volte sconfitto da Eisenhower, e infine superato da un concorrente dotato di carisma, gioventù e bellezza, John Fitzgerald Kennedy. La frase che Yates amava, quella su cui meditava scrivendo, è l’uscita di scena di un perdente: uno che avrebbe potuto cambiare le cose, ma non ce l’ha fatta, uno la cui storia non ha avuto nessun lieto fine.

Gli anni Cinquanta, l’alba dell’America contemporanea, sono l’epoca in cui questo libro fu composto. Le prime Solitudini comparvero in rivista all’inizio del decennio, ma furono raccolte e pubblicate solo nel 1962, in seguito al buon successo del primo romanzo di Yates, Revolutionary Road. Idealmente, questo è perciò un libro d’esordio: una raccolta di racconti scritti tra i venti e i trent’anni, in cui sono contenuti molti semi che germoglieranno nei romanzi successivi.

New York nel dopoguerra è un’isola brulicante. In città la giovane borghesia si mescola a intellettuali e artisti esuli dall’Europa, e i reduci appena sbarcati trasformano le strade in una festa mobile: notti in bianco, scorribande innaffiate dal whisky e ritmate dal jazz, donne da conquistare. È la stessa città ubriaca descritta vent’anni prima da Fitzgerald, che di Yates è il maestro, nel racconto “May Day”:

C’era stata una guerra combattuta e vinta, e la grande città del popolo conquistatore era addobbata con archi trionfali e vivida di fiori bianchi, rossi e rosa lanciati dalla folla. Nella grande città non c’era mai stato tanto splendore, poiché la guerra vittoriosa aveva portato con sé l’abbondanza, e i mercanti avevano affollato la metropoli insieme alle loro famiglie, venendo dal Sud e dall’Ovest, per godersi i lussosi banchetti e assistere ai festeggiamenti. Un giorno dopo l’altro le fanterie sfilavano nei viali e tutti esultavano, perché i giovani reduci erano puri e coraggiosi, con denti sani e gote rosa, e le giovani donne del paese erano vergini e belle.

Anche Yates è tornato dalla guerra. Ha una lieve forma di tubercolosi e incurabili sogni di gloria. In pochi anni, dopo il ricovero e la dimissione dal sanatorio, percorre tutta la discesa agli inferi del poeta romantico: si sposa, ha una figlia, raccoglie i soldi per ripartire, viaggia tra Parigi e Londra senza vedere Parigi né Londra ma rinchiudendosi nelle camere in affitto a scrivere i suoi racconti, torna a New York squattrinato e deluso e trova lavoro nella pubblicità, nelle riviste, nelle case editrici, comincia a scrivere romanzi e a ricevere rifiuti, subisce le prime crisi depressive e continua a bere sempre di più, viene lasciato dalla moglie e infine festeggia il suo esordio letterario. Meglio di qualsiasi riassunto biografico, quest’epoca è descritta nell’ultimo racconto del libro, “Costruttori”, un ritratto dell’artista da giovane in cui l’aspirante scrittore è fratello di altri eroi autodidatti della letteratura americana, da Arturo Bandini a Martin Eden: un appartamento sudicio, una serie di lavori frustranti e un matrimonio a rotoli, il fondo cercato e toccato in nome della fede nel proprio talento. Tanti altri episodi di quel periodo sono rintracciabili in Undici solitudini: a trentasei anni, il giorno dell’uscita del libro, Yates aveva alle spalle un’intera vita da raccontare.

martedì

IL CERCHIO NON È ROTONDO


Before The Rain Soundtrack Anastasia Time Never Dies gbu - YouTube

di 
Federica Casini

Anankè della violenza, eterno ritorno della storia e conversione romanzesca in “Before the rain” di Milcho Manchevski

 «It is the time just before rain, the time when the flies bite like kamikaze, when the birds fly low and the sky hangs overhead black, heavy and expectant, when all the colors are washed in gray, subdued and intense, yet punched through by radiant hues.
It's about to burst.
A heavy sense of expectation, of lowering, of time just before something large overwhelms the picture, the frame, the rhythm, the colors, the light, the music and the characters.
Still, the story moves fast, faster than words.» (Milcho Manchevski)


«C'è odore di pioggia» 1, l'odore acuto e inconfondibile che il temporale imminente sprigiona e diffonde sulle cose. Un senso di attesa opprimente, di ancestrale incombenza pervade l'aria, soffocante, carica di pesanti incertezze, che «sa di sangue». Nubi minacciose dominano l'orizzonte, gonfie d'acqua e di cupi presagi. «La gente tace» 2, volge gli occhi verso l'alto ad interrogare un cielo spettrale, plumbeo. Ormai «Sta per piovere». Già i tuoni risuonano in lontananza, avvisaglie inequivocabili della tempesta che si sta abbattendo sui Balcani. Ma «Il tempo non muore», ammonisce enigmaticamente il vecchio monaco ortodosso. Esso non segue i ritmi di una temporalità “storica” impazzita, dove una tartaruga è martirizzata dentro il circolo di fuoco tracciato da bambini sadici. «Il cerchio non è rotondo» continua il padre. Come dire: l'Anankè ineluttabile della violenza, «la caparbietà “retributiva" dell'odio» 3, che pare decretare l'inesorabile ripetersi degli eventi, non è eterna; forse il cerchio fatale non è destinato inevitabilmente a chiudersi….
Un cerchio che non si chiude, un eterno ritorno che non sarà mai uguale a se stesso: Before the rain di Milcho Manchevski è l'illustrazione più compiuta di questo teorema paradossale, il cui senso è racchiuso in una frase magica come un arcano. Nel tempo che precede la pioggia, tempo sospeso e gravido di conseguenze, tre personaggi incrociano drammaticamente i loro destini: una ragazza albanese, accusata di aver ucciso un pastore macedone, inseguita dai parenti del defunto ma assassinata per mano fraterna; il marito di una photoeditor inglese trucidato in un ristorante in seguito ad un'esplosione terroristica di matrice etnico-religiosa; un fotografo di guerra macedone, amante della donna, che torna al paese natale dopo sedici anni, pronto a rischiare la vita per salvare dalla persecuzione dei cugini proprio quella ragazza albanese…
La trama del film di Manchevski, un «racconto in tre parti» ( «parole», «volti», «immagini» ) in cui ogni episodio si incastra col successivo fino a produrre una struttura non cronologica ma circolare, si sviluppa nell'intervallo di tempo che separa gli avvenimenti narrati dall'arrivo della pioggia. Zamira, Nick, Alexander si rincorrono attraverso la loro morte e si ritrovano in un finale tragico in cui si dipana la ragnatela che teneva uniti i fili di quelle vite all'apparenza disparate. Il sangue, accanto all'acqua, bagna in modo indelebile l'opera prima di Manchevski. Il sangue come epifania della violenza, della vendetta («Il sangue chiama sangue»), della morte; ma anche simbolo di riconciliazione e vita.
Film costruito, come racconta il suo autore, attorno ad una «sensazione di angoscia, di nuvole che si addensano nel cielo» 4 provata al suo ritorno in Macedonia («C'era questa sensazione di qualcosa di grave che stava per accadere, qualcosa che incombeva nell'aria» 5) Before the rain non è un documentario sul conflitto nei territori della ex Jugoslavia ma una «riflessione sulla guerra». La Macedonia raffigurata nel lungometraggio è infatti un luogo localizzato ma a-geografico, solo accidentalmente situato ai giorni nostri, estraneo ad ogni determinata collocazione spazio-temporale. «In sintonia con l'opzione mitologico-antropologica e il bizzarro meccanismo temporale del film, Manchevski fa una scelta di stile non realistica» 6. La sua terra d'origine diviene teatro di una vicenda fittizia (la guerra di cui il regista narra le efferatezze in realtà non c'è mai stata), 7 dai contorni mitici . E del mito, intriso del sangue delle origini, il film mette in scena la “sapienza” riguardo alle “soluzioni” che gli uomini da sempre forniscono al problema del controllo della violenza: il sapere dell'omicidio fondatore (e della sua interminabile ripetizione nella storia mediante il sacrificio), quando un assassinio riportò per la prima volta la pace sulla comunità in preda al caos autodistruttivo. La tartaruga, animale che non riesce ad abbracciarsi perché fa tutt'uno con una corazza dalla quale ormai non si distingue più 8, incarna il destino dell'uomo e del fragile edificio della cultura umana 9, che va in frantumi non appena la violenza abbatte i precari confini stabiliti dall'ordine sociale e politico. Manchevski non consegna allo spettatore un reportage sulla guerra nei Balcani, non attualizza ma torna indietro nel tempo, sposta o meglio riporta il tema del conflitto alle sue origini per far rivivere «l'evento storicamente fondante il paradigma sacrificale» 10e riflettere sulla logica che soggiace da sempre ad «ogni fronteggiarsi in odio e vendetta di uomo a uomo, di gruppo a gruppo» 11. La storia narrata nel film è al tempo stesso lontana e vicina, senza età, allegoria della tragedia umana di ogni epoca: «Anche se, inevitabilmente tutti lo interpretano come un film di denuncia sulla situazione attuale, io lo considero soprattutto un film simbolico, metaforico. Quello che racconto potrebbe succedere in qualunque parte del mondo» 12 afferma il cineasta

lunedì

Proscenio: o del golfo mistico,


Charles Bukowski: dentro la filosofia delle sue opere – Auralcrave

la tragedia delle foglie


mi destai alla siccità e le felci erano morte,
le piante in vaso gialle come grano;
la mia donna era sparita
e i cadaveri dissanguati delle bottiglie vuote
mi cingevano con la loro inutilità;
c'era ancora un bel sole, però, 
e il biglietto della padrona ardeva d'un giallo caldo
e senza pretese; ora quello che ci voleva
era un buon attore, all'antica, un burlone capace di scherzare
sull'assurdità del dolore; il dolore è assurdo
perché esiste, solo per questo;
sbarbai accuratamente con un vecchio rasoio
l'uomo che un tempo era stato giovane e,
così dicevano, geniale; ma
questa è la tragedia delle foglie,
le felci morte, le piante morte;
ed entrai in una sala buia
dove stava la padrona di casa
insultante e ultimativa,
mandandomi all'inferno,
mulinando i braccioni sudati
e strillando
strillando che voleva i soldi dell'affitto
perché il mondo ci aveva tradito
tutt'e due.
DA It Catches My Heart in Its Hands
(Poems 1955-1963)

Charles Bukowski