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lunedì

Ô temps-collage: Guy Garnier

Ô temps-collage 




Cinema strumento di poesia


26 gennaio 2010
Pubblicato da  

di Corrado Benigni

La creatura, quali siano gli occhi suoi, vede/ l’aperto. Soltanto gli occhi nostri son/ come rigirati, posti tutt’intorno ad essa,/ trappole ad accerchiare la sua libera uscita.
 
R.M. RILKE, ELEGIE DUINESI


“Il cinema è strumento di poesia con tutto ciò che questa parola può contenere di significato liberatorio, di sovversione, di soglia attraverso cui si accede al mondo meraviglioso del subconscio”, ha scritto Luis Buñuel.(1) Tanto cinema “è” poesia. I tramonti di John Ford, i primi piani di volti e corpi di Ingmar Bergman, la surreale follia di Peter Greenaway, per citare solo alcuni esempi. La fascinazione della settima arte passa necessariamente attraverso una visione lirica del mondo, senza per questo doversi a tutti i costi contrapporre ad una concezione “realistica” del narrare per immagini.
Se da un punto di vista rigorosamente letterario il cinema sembra avere più parentela con la prosa (perché tanti film sono tratti da opere di narrativa, o più semplicemente perché alla base c’è sempre “una prosa”, la sceneggiatura), è altresì vero che le suggestioni immaginarie di molti registi si nutrono di poesia, magari senza citarla direttamente bensì “ricreandola” stilisticamente, proprio come i grandi autori citati sopra. Vi è un particolare mondo, appartenente alla dimensione umana, che si esprime solamente attraverso immagini significanti: “il mondo della memoria e dei sogni”, ha detto Buñuel.(2) Ecco dunque la corrispondenza di sensibilità tra cinema e poesia: la natura fortemente onirica di questi due linguaggi. Sulla stessa linea, secondo Pasolini “lo strumento linguistico su cui si basa il cinema è di tipo irrazionalistico: e questo spiega la profonda qualità onirica del cinema”.(3)
Il cinema come la poesia è una forma di espressione più che di comunicazione. Tuttavia tra i due linguaggi il rapporto è disomogeneo. Forse ciò che veramente li accomuna è che alla base di questi due linguaggi c’è il tentativo di scandagliare – da prospettive diverse – il problema della visione, di cercare uno spazio di visione, una visione “esistenziale”, in quel gioco di ombre che fa scoprire che tutto il mondo è metafora di qualcosa, e da qui l’urgenza di “dare perimetro a ciò che è smisurato” come scrive Milo De Angelis nel suo saggio su Fuoco fatuo di Louis Malle. Questo bisogno è ancora più sentito nell’uomo contemporaneo, in questo tempo di “mancanza di visione”, dove a un eccesso di immagini si contrappone spesso l’incapacità di comprendere il reale, l’assenza di quell’attitudine dello sguardo che tende a vedere l’inclinazione del mondo, di cosa son fatte le cose e le persone, e dove vanno, che è poi il senso del nesso tra particolare e infinito.

mercoledì

Richard Yates: nessuna pietà



15 ottobre 2012 • pubblicato da minimaetmoralia 
 

Dalla prefazione di Paolo Cognetti a Undici solitudini di Richard Yates  
(Immagine: Edward Hopper.)




 di Paolo Cognetti

Sul tavolo di Richard Yates, sopra le foto di figlie avute da donne diverse, sopra bottiglie e portacenere e pagine scritte e stracciate e riscritte, è stata appesa per anni questa frase: «Gli americani sono sempre stati inconsciamente convinti che tutte le storie avranno un lieto fine». Sono parole di Adlai Stevenson, la grande speranza democratica degli anni Cinquanta: candidato due volte alla presidenza e due volte sconfitto da Eisenhower, e infine superato da un concorrente dotato di carisma, gioventù e bellezza, John Fitzgerald Kennedy. La frase che Yates amava, quella su cui meditava scrivendo, è l’uscita di scena di un perdente: uno che avrebbe potuto cambiare le cose, ma non ce l’ha fatta, uno la cui storia non ha avuto nessun lieto fine.

Gli anni Cinquanta, l’alba dell’America contemporanea, sono l’epoca in cui questo libro fu composto. Le prime Solitudini comparvero in rivista all’inizio del decennio, ma furono raccolte e pubblicate solo nel 1962, in seguito al buon successo del primo romanzo di Yates, Revolutionary Road. Idealmente, questo è perciò un libro d’esordio: una raccolta di racconti scritti tra i venti e i trent’anni, in cui sono contenuti molti semi che germoglieranno nei romanzi successivi.

New York nel dopoguerra è un’isola brulicante. In città la giovane borghesia si mescola a intellettuali e artisti esuli dall’Europa, e i reduci appena sbarcati trasformano le strade in una festa mobile: notti in bianco, scorribande innaffiate dal whisky e ritmate dal jazz, donne da conquistare. È la stessa città ubriaca descritta vent’anni prima da Fitzgerald, che di Yates è il maestro, nel racconto “May Day”:

C’era stata una guerra combattuta e vinta, e la grande città del popolo conquistatore era addobbata con archi trionfali e vivida di fiori bianchi, rossi e rosa lanciati dalla folla. Nella grande città non c’era mai stato tanto splendore, poiché la guerra vittoriosa aveva portato con sé l’abbondanza, e i mercanti avevano affollato la metropoli insieme alle loro famiglie, venendo dal Sud e dall’Ovest, per godersi i lussosi banchetti e assistere ai festeggiamenti. Un giorno dopo l’altro le fanterie sfilavano nei viali e tutti esultavano, perché i giovani reduci erano puri e coraggiosi, con denti sani e gote rosa, e le giovani donne del paese erano vergini e belle.

Anche Yates è tornato dalla guerra. Ha una lieve forma di tubercolosi e incurabili sogni di gloria. In pochi anni, dopo il ricovero e la dimissione dal sanatorio, percorre tutta la discesa agli inferi del poeta romantico: si sposa, ha una figlia, raccoglie i soldi per ripartire, viaggia tra Parigi e Londra senza vedere Parigi né Londra ma rinchiudendosi nelle camere in affitto a scrivere i suoi racconti, torna a New York squattrinato e deluso e trova lavoro nella pubblicità, nelle riviste, nelle case editrici, comincia a scrivere romanzi e a ricevere rifiuti, subisce le prime crisi depressive e continua a bere sempre di più, viene lasciato dalla moglie e infine festeggia il suo esordio letterario. Meglio di qualsiasi riassunto biografico, quest’epoca è descritta nell’ultimo racconto del libro, “Costruttori”, un ritratto dell’artista da giovane in cui l’aspirante scrittore è fratello di altri eroi autodidatti della letteratura americana, da Arturo Bandini a Martin Eden: un appartamento sudicio, una serie di lavori frustranti e un matrimonio a rotoli, il fondo cercato e toccato in nome della fede nel proprio talento. Tanti altri episodi di quel periodo sono rintracciabili in Undici solitudini: a trentasei anni, il giorno dell’uscita del libro, Yates aveva alle spalle un’intera vita da raccontare.

martedì

IL CERCHIO NON È ROTONDO


Before The Rain Soundtrack Anastasia Time Never Dies gbu - YouTube

di 
Federica Casini

Anankè della violenza, eterno ritorno della storia e conversione romanzesca in “Before the rain” di Milcho Manchevski

 «It is the time just before rain, the time when the flies bite like kamikaze, when the birds fly low and the sky hangs overhead black, heavy and expectant, when all the colors are washed in gray, subdued and intense, yet punched through by radiant hues.
It's about to burst.
A heavy sense of expectation, of lowering, of time just before something large overwhelms the picture, the frame, the rhythm, the colors, the light, the music and the characters.
Still, the story moves fast, faster than words.» (Milcho Manchevski)


«C'è odore di pioggia» 1, l'odore acuto e inconfondibile che il temporale imminente sprigiona e diffonde sulle cose. Un senso di attesa opprimente, di ancestrale incombenza pervade l'aria, soffocante, carica di pesanti incertezze, che «sa di sangue». Nubi minacciose dominano l'orizzonte, gonfie d'acqua e di cupi presagi. «La gente tace» 2, volge gli occhi verso l'alto ad interrogare un cielo spettrale, plumbeo. Ormai «Sta per piovere». Già i tuoni risuonano in lontananza, avvisaglie inequivocabili della tempesta che si sta abbattendo sui Balcani. Ma «Il tempo non muore», ammonisce enigmaticamente il vecchio monaco ortodosso. Esso non segue i ritmi di una temporalità “storica” impazzita, dove una tartaruga è martirizzata dentro il circolo di fuoco tracciato da bambini sadici. «Il cerchio non è rotondo» continua il padre. Come dire: l'Anankè ineluttabile della violenza, «la caparbietà “retributiva" dell'odio» 3, che pare decretare l'inesorabile ripetersi degli eventi, non è eterna; forse il cerchio fatale non è destinato inevitabilmente a chiudersi….
Un cerchio che non si chiude, un eterno ritorno che non sarà mai uguale a se stesso: Before the rain di Milcho Manchevski è l'illustrazione più compiuta di questo teorema paradossale, il cui senso è racchiuso in una frase magica come un arcano. Nel tempo che precede la pioggia, tempo sospeso e gravido di conseguenze, tre personaggi incrociano drammaticamente i loro destini: una ragazza albanese, accusata di aver ucciso un pastore macedone, inseguita dai parenti del defunto ma assassinata per mano fraterna; il marito di una photoeditor inglese trucidato in un ristorante in seguito ad un'esplosione terroristica di matrice etnico-religiosa; un fotografo di guerra macedone, amante della donna, che torna al paese natale dopo sedici anni, pronto a rischiare la vita per salvare dalla persecuzione dei cugini proprio quella ragazza albanese…
La trama del film di Manchevski, un «racconto in tre parti» ( «parole», «volti», «immagini» ) in cui ogni episodio si incastra col successivo fino a produrre una struttura non cronologica ma circolare, si sviluppa nell'intervallo di tempo che separa gli avvenimenti narrati dall'arrivo della pioggia. Zamira, Nick, Alexander si rincorrono attraverso la loro morte e si ritrovano in un finale tragico in cui si dipana la ragnatela che teneva uniti i fili di quelle vite all'apparenza disparate. Il sangue, accanto all'acqua, bagna in modo indelebile l'opera prima di Manchevski. Il sangue come epifania della violenza, della vendetta («Il sangue chiama sangue»), della morte; ma anche simbolo di riconciliazione e vita.
Film costruito, come racconta il suo autore, attorno ad una «sensazione di angoscia, di nuvole che si addensano nel cielo» 4 provata al suo ritorno in Macedonia («C'era questa sensazione di qualcosa di grave che stava per accadere, qualcosa che incombeva nell'aria» 5) Before the rain non è un documentario sul conflitto nei territori della ex Jugoslavia ma una «riflessione sulla guerra». La Macedonia raffigurata nel lungometraggio è infatti un luogo localizzato ma a-geografico, solo accidentalmente situato ai giorni nostri, estraneo ad ogni determinata collocazione spazio-temporale. «In sintonia con l'opzione mitologico-antropologica e il bizzarro meccanismo temporale del film, Manchevski fa una scelta di stile non realistica» 6. La sua terra d'origine diviene teatro di una vicenda fittizia (la guerra di cui il regista narra le efferatezze in realtà non c'è mai stata), 7 dai contorni mitici . E del mito, intriso del sangue delle origini, il film mette in scena la “sapienza” riguardo alle “soluzioni” che gli uomini da sempre forniscono al problema del controllo della violenza: il sapere dell'omicidio fondatore (e della sua interminabile ripetizione nella storia mediante il sacrificio), quando un assassinio riportò per la prima volta la pace sulla comunità in preda al caos autodistruttivo. La tartaruga, animale che non riesce ad abbracciarsi perché fa tutt'uno con una corazza dalla quale ormai non si distingue più 8, incarna il destino dell'uomo e del fragile edificio della cultura umana 9, che va in frantumi non appena la violenza abbatte i precari confini stabiliti dall'ordine sociale e politico. Manchevski non consegna allo spettatore un reportage sulla guerra nei Balcani, non attualizza ma torna indietro nel tempo, sposta o meglio riporta il tema del conflitto alle sue origini per far rivivere «l'evento storicamente fondante il paradigma sacrificale» 10e riflettere sulla logica che soggiace da sempre ad «ogni fronteggiarsi in odio e vendetta di uomo a uomo, di gruppo a gruppo» 11. La storia narrata nel film è al tempo stesso lontana e vicina, senza età, allegoria della tragedia umana di ogni epoca: «Anche se, inevitabilmente tutti lo interpretano come un film di denuncia sulla situazione attuale, io lo considero soprattutto un film simbolico, metaforico. Quello che racconto potrebbe succedere in qualunque parte del mondo» 12 afferma il cineasta

lunedì

Proscenio: o del golfo mistico,


Charles Bukowski: dentro la filosofia delle sue opere – Auralcrave

la tragedia delle foglie


mi destai alla siccità e le felci erano morte,
le piante in vaso gialle come grano;
la mia donna era sparita
e i cadaveri dissanguati delle bottiglie vuote
mi cingevano con la loro inutilità;
c'era ancora un bel sole, però, 
e il biglietto della padrona ardeva d'un giallo caldo
e senza pretese; ora quello che ci voleva
era un buon attore, all'antica, un burlone capace di scherzare
sull'assurdità del dolore; il dolore è assurdo
perché esiste, solo per questo;
sbarbai accuratamente con un vecchio rasoio
l'uomo che un tempo era stato giovane e,
così dicevano, geniale; ma
questa è la tragedia delle foglie,
le felci morte, le piante morte;
ed entrai in una sala buia
dove stava la padrona di casa
insultante e ultimativa,
mandandomi all'inferno,
mulinando i braccioni sudati
e strillando
strillando che voleva i soldi dell'affitto
perché il mondo ci aveva tradito
tutt'e due.
DA It Catches My Heart in Its Hands
(Poems 1955-1963)

Charles Bukowski 

   

 
    

venerdì

Scritti corsari. Estratti . . .


I Grandi della Letteratura Italiana - S2017 - Pier Paolo Pasolini ...

La spiegazione è semplice: oggi in realtà in Italia c'è un drammatico vuoto di potere. Ma questo è il punto: non un vuoto di potere legislativo o esecutivo, non un vuoto di potere dirigenziale, né, infine, un vuoto di potere politico in un qualsiasi senso tradizionale. Ma un vuoto di potere in sé.
Come siamo giunti a questo vuoto? O, meglio, come ci sono giunti gli uomini di potere? [ . . . ]
Il potere reale procede senza di loro: ed essi non hanno più nelle mani che quegli inutili apparati che, di essi, rendono reale nient'altro che il luttuoso doppiopetto.

Tuttavia nella storia il vuoto non può sussistere: esso può essere predicato solo in astratto e per assurdo. [ . . . ]

Pier Paolo Pasolini, 1° febbraio 1975. L'articolo delle lucciole - Il vuoto del potere in Italia.
 

sabato

Marionette, libertà e finzione -

Robert de Niro nell'inquadratura finale di "C'era Una volta in America"

Da Ubu Incatenato di Alfred Jarry:


I FORZATI: Viva la schiavitù, viva Padre Ubu!
PADRE UBU: Madre Ubu, hai un pezzo di spago per rabberciare la catena delle mie spalle?    Sono così pesanti che ho sempre paura di perderle per strada.
MADRE UBU: Stupido personaggio!
PADRE UBU: Guardate, mi si sgancia la gogna e mi si sfilano le manette dalle mani. Finirà che mi troverò libero, senza ornamenti, senza scorta, senza onori, e costretto a provvedere da me a tutte le mie necessità!

Da Sul Teatro di Marionette di Heinrich Von Kleist:

"Sicché" dissi un po' distratto, "dovremmo mangiare di nuovo il frutto dell'albero della conoscenza per ritornare allo stato di innocenza?"
"Eh sì" rispose. "Questo è l'ultimo capitolo della storia del mondo".

Da Una pantomima. Un soggetto per la scena: Antonin Artaud . . .

La scena si riempie di gente che corre e indica il cielo col dito.
- Là, là, che cosa è?
- No, non là, qua, ti dico che è qua.
- La macchia, to', guarda la macchia, ehi ma guarda quella macchia.

  
 Era una melodia, era un alito?
Qualche cosa era fuori dei vetri.
Aprii la finestra: era lo Scirocco:
e delle nuvole in corsa al fondo del cielo curvo
(non c'era là il mare?)
si ammucchiavano nella chiarità argentea
dove l'aurora aveva lasciato un ricordo dorato. 
Dino Campana, Canti Orfici, 1914. 

 
 

 

venerdì

In memoria di Ciprì e Maresco




3 febbraio 2010 • pubblicato da Nicola Lagioia 
Questo pezzo è apparso nel numero di febbraio della rivista Lo Straniero.





Memorabile apparizione



Agli inizi degli anni Novanta, quando la televisione pubblica italiana non era irreversibilmente comatosa come oggi, sugli schermi di una Rai Tre allora diretta da Angelo Guglielmi iniziarono a comparire degli strani frammenti filmati. Si trattava di brevi scenette in bianco e nero che – ad avere un occhio allenato – sembravano una summa perfetta del cinema di Pasolini e di quello di Buñuel, dell’inquietante bellezza dell’epoca del muto (da Buster Keaton in giù) e dell’umanità stremata del Beckett della Trilogia. Erano immagini che avevano attraversato indenni la carnalità morente della Grande bouffe di Ferreri e i silenzi di Antonioni (ritenevano cioè la «crisi della borghesia» un problema già digerito e espulso da molto e molto tempo), avevano sostato dubbiose nel deserto del Simon di Buñuel e nell’atroce spazio concentrazionario del Salò pasoliniano. Poi, però, si erano spinte avanti – e il luogo da cui parlarono ad alcuni milioni di telespettatori narcotizzati dalla tv commerciale italiana che all’epoca era già l’unica tv italiana possibile, era un posto in cui nessuno era mai ancora stato. Era successo in passato, sugli schermi televisivi della penisola (Hommelette for Hamlet di Carmelo Bene per esempio, mandato in onda su Rai 3 nel 1987), e sarebbe accaduto sempre più di rado.
Nonostante i debiti quasi dichiarati con le proprie ascendenze artistiche, le sequenze di «Cinico tv» – questo il nome del programma – rivendicavano un’autorialità assolutamente matura e inconfondibile, identica solo a se stessa. Ciò che secondo Harold Bloom è per la letteratura «l’ansia dell’influenza», cioè la prova che gli artisti devono sostenere per liberarsi dei Padri e diventare grandi, Daniele Ciprì e Franco Maresco – questo il nome degli autori del programma – l’avevano superata già brillantemente.
Le scene di «Cinico tv» mostravano una Sicilia da Wasteland se T.S. Eliot si fosse fatto le ossa nello Zen di Palermo, periferie urbane desolate e degradate, ricolme di macerie e scarti industriali eppure anche toccate da una grazia ruvida e irriducibile: uno scenario da dopobomba e preistorico al tempo stesso, dove mura diroccate, strade dissestate, pratoni fotografati con l’orrendo skyline dei palazzi popolari riuscivano a saldare la fine della Storia con l’intestimoniabile atmosfera che si sarebbe potuta respirare a Uruk, il primo insediamento umano di cui si abbia notizia. Addentrandosi senza movimento in questo paesaggio impossibile (cioè abituando l’occhio ai quadri immobili disegnati da Ciprì e Maresco), ci si rendeva presto conto che Pasolini e Buñuel e lo stesso Pirandello – quest’ultimo spesso citato dai due autori come punto di riferimento – in quel Sud, in quell’Italia, in quel mondo non ci avevano mai messo piede. O, forse, lo avevano fatto in maniera diversa. Il problema era che (volendo trovare per forza un nume tutelare) a un certo punto sembrava che quelle immagini le avesse girate Qohèlet in persona. Ma che ci faceva lo spirito dell’Ecclesiaste a Palermo, negli anni Novanta del XX secolo, e per di più testimoniato dalla televisione nazionale?
Ai margini di quei margini della civiltà, c’erano poi delle figure umane. Anche in questo caso, si trattava di «tipi» del tutto sconosciuti al pubblico televisivo. I protagonisti di «Cinico tv» erano freaks, scarti, rottami di forma antropomorfa capaci di nobilitare i disperati delle più affollate e malsane metropoli del Terzo e Quarto mondo. Una schiera indimenticabile di obesi in mutande, balbuzienti, schizofrenici, alienati mentali, tutti affetti da disturbi che andavano dal meteorismo alla satiriasi depressiva, tutti rigorosamente maschi – quasi a lasciar intendere l’impossibilità in un simile contesto di una grazia femminile, o anche solo di una compagnia domestica, di una consolazione sessuale – e tutti stretti in una solitudine invincibile che però, ancora una volta, non aveva a che fare con i rovelli dei vari Roquentin e Dino di sartriana o moraviana memoria. Non era cioè una solitudine (o peggio ancora un’alienazione) borghese, non era crepuscolare o malinconica e non generava nevrosi da affidare all’impotenza di un analista, ma era stremata e folle e insondabilmente allegra al tempo stesso. In una parola: comica. Niente a che fare quindi con l’umorismo, ma comicità allo stato puro – e dunque ferocia e grazia allucinata –, come quella che possiedono i personaggi di Kafka e alimenta i balletti infernali di Céline. Cugino germano di quei personaggi era l’esaltato profeta Iokanaan, che nella Salomè di Carmelo Bene insulta Erode e famiglia in dialetto siciliano farfugliando degli sgangheratissimi «figghia di buttana! figghia di Babilonia!», per di più vestito con la maglia della nazionale italiana di calcio sulle note di una canzone da telefoni bianchi: «se vuoi vivere senza pensieri / dalle donne ti devi guardar» (così come del resto era vestito da ciclista postatomico il compianto Francesco Tirone, uno dei personaggi di «Cinico Tv», e non è raro, nelle opere di Ciprì e Maresco, che un momento drammatico venga esaltato da un sottofondo di musica neomelodica o dagli scarti di magazzino dei musicarelli anni Sessanta). Meglio ancora, però, quei personaggi ricordavano i Murphy e i Molloy beckettiani, e la voce dell’Innominabile quando (parafrasando) dice: «non posso continuare, continuerò». Con l’ulteriore differenza che mentre le creature di Beckett sono giacomettiane – tanto estreme quanto più ridotte a un fil di ferro –, la radicalità dei personaggi di Ciprì e Maresco è tale proprio perché non divorzia (mai!) da una carnalità in disfacimento ma prepotentemente viva nonostante tutto. Né Kafka né Beckett avevano ritenuto di poter bussare alla Porta della Legge in maniera così palpitante. E a dire il vero, i vari Paviglianiti, Tirone, Giordano, Cirrincione, Roccocane (questi, i nomi di alcuni degli abitanti della wasteland palermitana) non bussavano ma inciampavano rovinosamente in quell’ultima soglia di significato che è la vera mistica dell’arte del Novecento e, proprio per questo, rischiavano di meritarsi uno straccio di risposta (sia pure incomprensibile) che era invece temporaneamente (cioè perpetuamente) negata ai vari K, Murphy, Molloy e compagnia bella. È in questa prospettiva forse – dalla contrada del Caos di inizio Novecento al caos senza più assilli di fine secolo – che il cerchio tracciato dall’amato Pirandello viene chiuso dai due autori cinematografici proprio attraverso un’apertura spiazzante: non semplicemente verso l’uomo post-novecentesco, ma verso quello catastroficamente post-rinascimentale. Meglio ancora, l’oltreuomo nietzschiano che Nietszche non avrebbe mai immaginato (non super- ma sub-), un uomo che, pur facendo a meno di un oramai inservibile cogito cartesiano, mantiene intatta la sua forza e il suo mistero. Anzi – incredibilmente – li libera.

giovedì

La visione del vuoto – In memoria di Michelangelo Antonioni


La visione del vuoto – In memoria di Michelangelo Antonioni | Nazione  Indiana


29 settembre 2012
Pubblicato da



(Oggi sono cento anni dalla nascita di Michelangelo Antonioni. Questo lungo saggio di A.G. Cassani, docente all’Accademia di Venezia e caro amico,  è un modo per ricordarlo. G.B.)

di Alberto Giorgio Cassani

«GIULIANA. Ma cosa vogliono che faccia coi miei occhi?… Cosa devo guardare?»
                                        Deserto rosso



Il Vocabolario Etimologico della lingua italiana di Ottorino Pianigiani, del 1907,1 uno dei più longevi ed autorevoli nel suo campo, alla voce «visione», recita: «Funzione sensoria per la quale gli occhi pongono gli uomini e gli animali in rapporto col mondo esteriore, coll’intermedio della luce; Vista o apparizione di cose soprannaturali in sogno o in momento di grande astrazione di mente». Sottolineerei tre punti chiave: «luce», «mondo esteriore» e «astrazione». Penso che queste quattro parole si adattino perfettamente anche al mondo poetico di Michelangelo Antonioni. Del grande regista ferrarese, di cui il 29 settembre di quest’anno ricorrerà il centenario della nascita, si sono sempre citati i temi dell’alienazione, della malattia dei sentimenti, dell’ambiguità del reale. Altrettanto fondamentale, nel suo cinema, è la presenza delle visioni. In particolare la visione del vuoto. Su questo punto, vorrei brevemente soffermarmi in questo testo.
Antonio Costa ha parlato per Antonioni di sguardo del flâneur. Se «lo spazio di Antonioni è uno spazio urbano»2 e se, di più, lo stesso «paesaggio extraurbano, “naturale”, è visto, indagato, interrogato dallo stesso sguardo che vede e interroga lo spazio urbano»,3 lo «sguardo di Antonioni è lo sguardo del flâneur», perché «la flânerie è la forma che organizza la visione dello spazio urbano».4 È lo stesso regista a confermarlo: «Ecco un’occupazione che non mi stanca mai: guardare. Mi piacciono quasi tutti gli scenari che vedo: paesaggi, personaggi, situazioni».5
Rifacendosi sempre ad un dizionario etimologico, questa volta il Larousse, Costa cita la definizione del verbo flâner: «errare senza meta fermandosi spesso a guardare»6 e ne conclude che il «reporter, figura emblematica del cinema di Antonioni, può essere considerato l’ultima incarnazione del flâneur ottocentesco».7
Il flâneur antonioniano, dunque, non fa differenza tra metropoli, parchi urbani – «i parchi-giardini sono un luogo fondamentale della mappa urbana di Antonioni»8 – deserti o giungle9 e non si limita al mondo che lo circonda, bensì immagina anche luoghi “altri”: in Deserto rosso Corrado pensa di trasferirsi in Patagonia; nella baracca di Ugo è presente un manifesto con una radura tropicale e delle zebre;10 Giuliana – se possiamo definirla una flâneur – immagina isole misteriose (nell’episodio della favola raccontata al figlio) o luoghi di un’impossibile felicità («Chissà se c’è nel mondo un posto dove si va per stare meglio. Forse no»).11 In conclusione, per Costa, la città si presenta come «crittogramma», per il flâneur come per Antonioni: «L’immagine come enigma e come «malìa» sembra essere l’ossessione attorno a cui si organizza il cinema» del maestro ferrarese.12
Il flâneur, dunque, è continuamente colpito da “visioni”. Ma quali visioni? Pascal Bonitzer,13 che è daccordo con l’idea della flânerie – «si cammina molto nei film di Antonioni»14 – parla di «una insistente fascinazione per l’informe, l’informale, la figura che si nasconde, che si cancella, che scivola verso l’indifferenziato».15 In un caso, nella celeberrima sequenza dell’esplosione della villa in Zabriskie Point, la “sparizione” delle cose avviene attraverso questa deflagrazione, creando delle immagini, dei veri e propri quadri, che si avvicinano alla pittura informale. Contrariamente a quanto ancor oggi una certa “vulgata” di Antonioni ama sostenere, «ciò che caratterizza il suo cinema è un positivo interesse per quei deserti di un genere nuovo, quegli spazi amorfi, sconnessi, vuoti, per quel tessuto de-differenziato del mutamento urbano».16 E in questi “deserti urbani” i «personaggi di Antonioni sono attirati fino all’estremo limite dal vuoto, dal freddo, dagli spazi astratti che assorbono e inghiottono la figura umana, il viso amato, le forme del simile. L’avventura che essi vivono è una scomparsa».17 È quella tecnica di Antonioni che i francesi chiamano del temps mort e che
consiste [...] nello svuotamento dello spazio rappresentato, contenuto o tagliato dall’inquadratura, un luogo abitato fino a un attimo prima che acquista presenza formale – pienezza astratta, quasi pittorica, in virtù di un’assenza narrativa che si rivela allo sguardo dello spettatore.18
Basterà ricordare il dileguamento di Anna ne L’avventura – Roberto Chiesi ha parlato di «autocancellazione»19 –, dell’aereo nelle nuvole20 e di Vittoria e Piero nel finale de L’eclisse,21 della fabbrica nella nuvola di vapore,22 della nave “contaminata”23 e del gruppo di amici nella nebbia in Deserto rosso24 (ma la stessa Giuliana e il figlio scompaiono25 dall’inquadratura finale del film), del cadavere e di Thomas, nella famosissima sequenza finale, in Blow up; Niccolò, per un attimo, nella nebbia, in Identificazione di una donna, con Mavi che lo supplica: «Non sparire, ti prego». È significativo che sia spesso la nebbia a cancellare le cose e le persone – «è stata la nebbia a confondermi…»,26 si giustificherà Giuliana per aver sbagliato la direzione del molo – quella nebbia che Antonioni, nato a Ferrara, ben conosceva, e che gli fece scrivere che «poteva pensare d’essere altrove».27 Come la nebbia, anche il fuori fuoco: come in una sequenza di Zabriskie Point, in cui la cinepresa segue per un po’ Mark e Daria e poi«li lascia fuori campo per guardare le montagne azzurre, e poi la vista si annebbia, tutto il paesaggio va lentamente fuori fuoco».28 Sull’“azzurra lontananza” si leggerà più avanti. Ma, per tornare all’interpretazione di Bonitzer, vi è un elemento positivo in Antonioni, secondo l’attore-sceneggiatore-regista francese, che va di là di qualunque malattia dell’anima o disperazione esistenziale: il fatto di tendere ad
un universo non umano e non figurativo, una apoteosi astratta. L’universo si dilata, si dissemina, si raffredda, ma in questa entropia vi è una felicità segreta, la felicità informale delle macchie. Vi è un altro punto di vista, oltre a quello, semplicemente umano, incarnato dai protagonisti, vi è quello che esprime in modo non umano la macchina da presa, quel punto di vista astratto sui movimenti qualsiasi – esplosioni, nuvole, moti browniani, macchie – sullo spazio neutro riempito di movimenti qualunque, nel quale finisce il movimento dei film di Antonioni.29
Per Bonitzer si può parlare di una vera e propria ricerca della “bellezza” del vuoto, che non è il nulla,30 ma forse si avvicina al «Poco» di cui parla Walter Benjamin in Esperienza e povertà,31 un vuoto che è allo stesso tempo un pieno, come il Tao:
Niente è più bello (e ogni film sembra non essere costruito che per questa sola fine), in un film di Antonioni, del momento in cui i personaggi, gli esseri umani si cancellano per non lasciare sussistere, sembra, che uno spazio senza qualità, lo spazio puro, “lo spazio uguale a se stesso che si accresce o si nega”. Il campo vuoto non è vuoto: pieno di nebbia, di visi fugaci, di presenze evanescenti o di movimenti qualsiasi, rappresenta quel punto ultimo dell’essere alla fine liberato dalla negatività dei progetti, delle passioni, dell’esistenza umana.32
L’“estinzione” – il nirvana – non è uno dei concetti chiave della religiosità orientale? Non è un caso che Antonioni amasse così l’Oriente e che a quel mondo fosse così vicino, come Roland Barthes aveva così ben compreso.33

mercoledì

Robert Farber: nudo pittorico



 

Camminando a piedi nudi

Le verità di Proust | Il Foglio


Quanto a me, mi sento vivo e pensante solo in una stanza in cui tutto è creazione e linguaggio di esistenze profondamente diverse dalla mia, di un gusto opposto al mio, in cui non trovo alcun aspetto del mio pensiero cosciente, in cui la mia immaginazione si esalta al sentirsi immersa in seno al non-io; mi sento felice soltanto entrando - nel viale della stazione, al porto o sulla piazza della chiesa - in uno di quegli alberghi di provincia dai lunghi corridoi freddi in cui il vento esterno trionfa degli sforzi dei caloriferi, in cui la carta geografica particolareggiata del circondario è ancora il solo ornamento alle pareti, in cui qualsiasi suono serve soltanto a rivelare il silenzio, cambiandolo di posto, in cui le stanze conservano un odore di chiuso che l'aria esterna lava, ma non cancella, che le narici aspirano cento volte per trasmetterlo all'immaginazione incantata, che lo fa posare come modello per cercare di ricrearlo in sé con tutto il suo bagaglio di pensieri e ricordi; in cui la sera, aprendo la porta della propria stanza, si ha la sensazione di violare tutta l'esistenza che vi è rimasta diffusa, di prenderla audacemente per mano quando, richiusa la porta, ci si inoltra nella stanza, fino al tavolo o fino alla finestra; di sedersi con lei in una sorta di libera promiscuità sul divano fabbricato dal tappezziere del capoluogo in uno stile che credeva parigino; di toccare ovunque la nudità di questa vita soltanto per turbarci della nostra stessa familiarità, posando qua o là le nostre cose, comportandoci da padroni in una stanza traboccante dell'anima altrui, che, nella forma stessa degli alari e nei disegni delle tende, conserva l'impronta del loro sogno, camminando a piedi nudi sul tappeto sconosciuto; allora, quella vita segreta, ci sembra di chiuderla insieme a noi quando andiamo, tremanti, a girare la chiave nella serratura; di spingerla davanti a noi nel letto e infine di dormire con lei tra le grandi lenzuola bianche che salgono fino al viso, mentre, a pochissima distanza, la chiesa fa risuonare per tutta la città le ore insonni dei moribondi e degli innamorati.

Marcel Proust, Sulla lettura, 1919.
pp. 10-11


martedì

Accellerato

Firenze, la salma di Eugenio Montale rischia di finire in ossario comune: scaduta la concessione del loculo

Fu così, com'è il brivido
pungente che trascorre
i sobborghi e solleva
alle aste delle torri
la cenere del giorno,
com'è il soffio
piovorno che ripete
tra le sbarre l'assalto
ai salici reclini -
fu così e fu tumulto nella dura
oscurità che rompe
qualche foro d'azzurro finché lenta
appaia la ninfale
Entella che sommessa
rifluisce dai cieli dell'infanzia
oltre il futuro -
poi vennero altri liti, mutò il vento,
crebbe il bucato ai fili, uomini ancora
uscirono all'aperto, nuovi nidi
turbarono le gronde -
fu così,
rispondi?

Eugenio Montale, Le occasioni, 1928-1939.


Il vento che solleva in alto la cenere dei giorni passati portando con sé le aspirazioni e i sogni di una età giovanile non più presente, lontana... I brevi attimi di grazia che irrompono sul vivere quotidiano; il repentino precipitare degli eventi, l'itineranza...



venerdì

Dell’amore



27 giugno 2012 - La dimora del tempo sospeso


Il corpo antigrazioso

Arte e Amore. Arte e Passione. Arte e Corpo. Il tema del corpo ha un ruolo chiave: è oggetto d’amore, strumento di piacere, evocatore di seduzione, oggetto feticcio. Da sempre il corpo è stato al centro dell’immaginazione degli artisti, ma dalla fine dell’Ottocento è stato oggetto di una vera e propria trasfigurazione: da corpi levigati, perfetti, espressione di armonia e di proporzione, si è arrivati a rappresentare spesso corpi scarnificati, rattrappiti, negati, luogo di fuga della materia, corpi sfatti, brutalmente gettati su una tela come pezzi di carne sul bancone di un macellaio, sintesi di un malessere esistenziale presago di morte e di corruzione. Non è vero che anima e corpo vivono vite separate: la carne si fa specchio di un disagio interiore che ha le sue radici profonde nella perdita dell’io. Questo spiega la violenza visiva evidente nella rappresentazione di corpi disumanizzati, smembrati, deformati, in cui non è il pathos che ispirano a renderli attraenti ma una paradossale morbosa curiosità verso il brutto e il deforme. Un’idea che si precisa all’interno di un processo che, irreversibilmente attivato dalle inquietudini di Fine Ottocento e dalle Avanguardie storiche del Primo Novecento, trova manifestazione compiuta nella produzione di alcuni artisti che, conservando il figurativismo, negano l’umanità del soggetto proponendolo con indifferenza, senza alcuna compartecipazione emotiva, fino a distorcere la riconoscibilità delle forme, de-formando espressionisticamente la figura umana, fino a farla sentire “diversa” e repellente.
“La bravura di Freud non è tanto nello stile pittorico, ma nel modo in cui egli si relaziona con la sua modella, nel modo in cui reagisce a lei, in quello che sceglie di raccontare del mondo di lei (ed anche di sé stesso). Le figure ritratte da Freud sono quasi come delle nature morte, come delle pitture di animali, anziché ritratti di esseri umani. I suoi quadri non ci raccontano la personalità delle sue modelle, ma il loro corpo, le loro pose. Inoltre, Freud sembra creare nell’osservatore la sensazione di assistere ad una seduta psicologica, dove c’è un vecchio psicoanalista e la sua paziente”.
(Richard Dorment, Daily Telegraph)
Lo studio di Lucian Freud si moltiplica come in un caleidoscopio nelle sue opere: vediamo modelle distese su lenzuola drappeggiate, modelli nudi appoggiati su teli intrisi di colore secco a coprire il pavimento, appoggiati a pareti che sembrano trasudare umidità, dove a volte, tra l’intonaco corroso, sembra di scorgere dei numeri di telefono sbiaditi, scritti a penna. Nel corpo femminile come in quello maschile l’artista mostra un’attenzione verso il realismo estremo, scegliendo soggetti dal ventre prominente, dalle adiposità evidenti, dalle proporzioni non certamente ideali, in una ricerca morbosa dell’ “antigrazioso” e, attraverso l’epidermide, resa impietosamente dalla luce in tutte le sue imperfezioni, fa affiorare la natura dei suoi personaggi, il pennello nella sua mano diventa un bisturi che taglia, incide, seziona, rivelando ansie, paure, tormenti. Sono opere che disturbano l’osservatore negando le sue aspettative di gratificazione estetica, eppure ci si sente attratti, avvinti da questi corpi esposti nella loro totale nudità, da questi volti che guardano senza vedere. Il corpo non è qui oggetto erotico. Non può esserlo. Gli manca l’avvenenza o l’ammiccamento lubrico della bruttezza. Sono deprivati del sesso, per così dire, perché il sesso è animalità, è vita, è pulsare di vene e arterie, anche se gli organi sessuali sono esibiti in totale indifferenza.

La società della stanchezza

  
27 settembre 2012 • pubblicato da minimaetmoralia 

(Questo pezzo è liberamente ispirato dalla lettura de “La società della stanchezza” di Byung-Chul Han, Nottetempo ed. 2012).

di Cristò

Lo sapete già di chi è la colpa: è colpa vostra.
Se non riciclate, se telefonate al parente infermiere per anticipare di un paio di mesi la data della visita medica, se lasciate l’acqua della doccia aperta mentre vi insaponate i capelli, se tenete troppo tempo acceso il condizionatore, se non pagate il biglietto dell’autobus, se comprate il caricatore del cellulare dai cinesi, se non chiedete lo scontrino al bar, se parcheggiate in doppia fila. È colpa vostra in ogni caso. Se l’azienda in cui lavorate è in perdita, se comprate troppo a rate, se non comprate abbastanza, se avete tre cellulari, se non arrivate a fine mese, se siete depressi. Non potete dare la colpa al governo, è colpa vostra. Del resto ce lo dicono fin da piccoli che tutto è possibile: basta impegnarsi. Volere è potere, quante volte ve l’hanno detto?
È colpa vostra e basta.
Per questo siete depressi, per questo le vostre gambe continuano a muoversi senza sosta, nervosamente, di giorno e di notte. Perché fumate troppo (magari non solo sigarette) e bevete troppo caffé, troppa birra, troppo liquore, troppa grappa, troppa Red Bull, troppa Coca Cola. Per questo vi svegliate stanchi: perché mangiate disordinatamente e in fretta nell’ora di pausa pranzo mentre il cellulare continua a squillare e voi continuate a rispondere e a lavorare masticando un panino. Per questo vi vengono i crampi allo stomaco e la gastrite, è colpa vostra, non vi date tregua e non date tregua agli altri. Ogni insuccesso è un vostro insuccesso, ogni successo è un successo di squadra. Come l’attaccante che ha fatto quattro gol, alla fine della partita dichiarate che tutti i ragazzi hanno giocato bene, che a calcio si gioca in undici.
Avete giornate dense, vero? Agende piene di impegni, incontri, riunioni. Dovete portare risultati. Dipende solo da voi, dalla vostra capacità di organizzare il lavoro. Il lavoro non ve lo portate a casa: ve lo portate a letto, sulla tazza del cesso, a pranzo, a cena, in auto, in piscina, in montagna, in testa, costantemente. Nelle valigie avete tre caricatori per i cellulari (e fortuna che quello dell’iphone va bene anche per l’ipad). Avete mal di testa e date la colpa all’aria condizionata dell’ufficio, del bar, della mensa, dell’automobile e invece è colpa vostra. Prendete un moment e andate avanti. È così, vero? E quando avete mal di gola, giù di analgesici, antibiotici, caramelle miele e propoli. Rispondete al telefono senza voce scusandovi con il vostro interlocutore. E se la febbre diventa troppo alta rimanete a casa, a letto, ma col portatile sulle gambe e controllate sulla webmail che tutto vada bene in vostra assenza. Avete un ruolo importante e vi aspettate che prima o poi avrete anche lo stipendio adatto a quel ruolo: non si può far pressione sull’azienda in tempo di crisi, dovete ringraziare di averlo un lavoro, un ruolo. Non ci mettono niente a trovarne un altro che faccia le stesse cose allo stesso stipendio, tutti sono necessari e nessuno è indispensabile. Se l’antibiotico vi fa addormentare, vi svegliate di soprassalto e controllate il cellulare poggiato sul comodino. Il direttore potrebbe aver chiamato per un’urgenza. Lui non si dà tregua, non dà tregua a voi, voi non date tregua agli altri, gli altri non danno tregua a lui.
È tutta colpa vostra, sua, degli altri.
Uscite di casa la mattina e tornate la sera. La casa che vi potete permettere costa ogni mese la metà del vostro sotto-stipendio e ha l’impianto elettrico fuori norma, gli infissi vecchi che lasciano entrare il freddo d’inverno, il caldo d’estate e il rumore del traffico sempre, le pareti che si sbriciolano intorno al chiodo se tentate di appendere un quadro. I mobili Ikea che vi potete permettere si rompono velocemente, cedono, non sono affidabili. E poi la vostra compagna è stressata quanto voi e, quanto voi, consapevole che è colpa sua. La casa è disordinata, i panni accatastati da lavare, la cucina sporca. Lei vi guarda e vi dice che nel fine settimana bisognerà fare pulizia. È solo colpa vostra se la casa è in questo stato. Un accampamento di zingari – dice lei.
Intanto mettete l’acqua sul fuoco. Per la cena c’è solo pasta col pesto. Nel fine settimana bisognerà fare un po’ di spesa – dite voi prima che lo dica lei. Bisognerà anche andare a pranzo dai miei e a cena dai tuoi – aggiunge lei. Poi squilla il cellulare e lei risponde mentre voi mettete il sale grosso nell’acqua bollente e va a parlare nella camera da letto. È una chiamata di lavoro. Il lavoro prima di tutto.
Voi leggete il tempo di cottura della pasta e undici minuti vi sembrano troppi per delle semplici linguine, perché voi in dieci minuti siete capaci di rispondere a tre telefonate, scrivere quattro e-mail e fumare due sigarette. Ma la pasta si prende tutto il tempo che gli serve, non è colpa sua se voi non ve lo prendete: è colpa vostra.
Mentre cenate accendete la televisione, al telegiornale dicono che è tutta colpa vostra.
Andate a letto consapevoli delle vostre colpe alle undici e trenta e impostate la sveglia del cellulare alle sei e trenta.
Anche domani sarà tutta colpa vostra.
Sogni d’oro.



Dintorni




"Io fotografo ciò che non voglio dipingere e dipingo ciò che non posso fotografare"


Il voyeur e il dominio della letteratura

Lolita, la terribile storia che ha ispirato Nabokov


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Il primo segnale, a ben vedere, è spesso dato dalle copertine: generalmente, anche se non è una regola, vi è ritratto un volto ripreso di taglio, che nella mezzaluce punta lo sguardo in basso, verso il marchio dell’editore. Di solito si tratta di un volto maschile, con almeno un tatuaggio sul collo o una mezza sigaretta ficcata tra le labbra, ma può anche essere disegnato o perfettamente frontale e riconoscibile: l’importante è che si tratti del volto dell’autore. È così, ad esempio, per Nicolai Lilin – che è comparso finora su tutte le copertine dei suoi libri: l’autore, oltre che essere la mano che l’ha scritto, è anche la faccia, l’immagine del suo libro. La cosa non è di secondaria importanza: non sono un grafico, e raramente mi soffermo sulla bellezza o sulla bruttezza di una copertina; ho però da tempo una convinzione: quando una copertina è brutta, o sciatta, di solito è brutto o sciatto anche il contenuto. I dischi peggiori che ho nella mia discoteca hanno delle copertine orrende; i film più brutti che ho visto avevano delle locandine impresentabili. Così è, più o meno, anche per i libri. Ma come ci si deve comportare quando l’immagine con cui un libro si fa conoscere dai lettori è quella dell’autore? Che cosa ci si deve aspettare? Ci si deve aspettare, lo dico subito, che il testo risponda a quella che sembra una delle tendenze editoriali fondamentali di questi anni: il romanzo autobiografico (o fortemente connotato da elementi autobiografici), che narra esperienze di vita al limite ed è scritto da un esordiente che acquisisce il diritto di raccontare (e di pubblicare) proprio in virtù delle singolari caratteristiche del proprio vissuto. L’elenco dei titoli e degli autori non è lunghissimo, per il momento, ma è significativo: di Lilin si è già detto; a lui vanno almeno aggiunti, tra gli altri, Sandro Bonvissuto – il cui Dentro è la scoperta più recente di casa Einaudi –, e lo straordinario Terra matta di Vincenzo Rabito, contadino siciliano semianalfabeta che sul finire della vita si è inventato una lingua e ha scritto la propria – arrabbiatissima e meravigliosa – autobiografia; o Giovanni Ubezio, tassista milanese che ha scritto per Il Saggiatore Il cane che mi guardava e altri racconti del taxista, un’improbabile raccolta che ruota attorno alla vita quotidiana e al lavoro dell’autore; ma anche, in parte, la Babsi Jones di Sappiano le mie parole di sangue (Rizzoli), rielaborazione in chiave metafisica della propria esperienza di volontaria nell’ex Jugoslavia e, forse, Riccardo Gazzaniga, fresco di contratto con Stile Libero dopo aver vinto il Calvino con A viso coperto, romanzo incentrato sul rapporto tra le forze dell’ordine e gli ultras scritto da un autore che di mestiere fa il poliziotto.