novembre 2012
di Giacomo Sartori
Quando
si è adulti bisogna fare gli adulti, anzi l’occupazione principale
diventa proprio quella: si ha da manifestarsi adulti in ogni evenienza e
circostanza, con qualsiasi mezzo e a qualsiasi prezzo, e anzi meglio si
fa gli adulti più si è considerati e ci si autoconsidera davvero
adulti. Il reale interlocutore di ogni adulto è lo specchio: è in primo
luogo di fronte a se stessi che bisogna mostrarsi adulti, se si vuole
convincere anche gli altri. Si fanno passi in avanti, ci si specializza e
perfeziona, acquistando a volte uno statuario sorriso che ricorda la
maschera ironica ma anche gioiosa di Ben Gazzarra. Quando si è davvero
imparato, e si comincia a essere soddisfatti di se stessi, ci si accorge
che si è ormai vecchi. Che si sta per morire.
Uno la tira più
lunga possibile, tergiversa e strascica i piedi, ma poi finisce che si
ritrova adulto. A me è capitato di notte, una notte ben precisa: era
buio, la persona vicino a me dormiva, dal giroscale del caseggiato
saliva un vuoto più risucchiante del solito, più geologico, e io mi sono
accorto che era successo. Mi sono accorto che era finita. Non che mi
fossi particolarmente divertito o entusiasmato, intendiamoci, ma era lo
stesso finita. Dovevo cominciare a fare l’adulto. Ho subito sperimentato
l’angoscia del neofita adulto.
Quando si è adulti si hanno un
sacco di seccature: grattacapi di ordine sanitario, economico, legale,
morale, famigliare, intimo, lavorativo: è incredibile quante beghe
catalizzi lo stato adulto: come le merde le mosche verdi. Prima di
diventare adulti non ci sarebbe mai immaginati di poter cumulare una
tale mole di fastidi così vari e aggressivi, così surrealmente reali. E
non è affatto casuale, ci si rende conto: non si sarebbe davvero adulti
se non si sciaguattasse in tutti quei guai maleodoranti, e se non lo si
affrontasse con quella risolutezza impaludata in un’uniforme di
didascalico – seppur posticcio – stoicismo.
Quando si è adulti non
si ha mai tempo, perché si è affaccendati giorno e notte a fare gli
adulti, e anche se lo si trovasse mancherebbe agli altri adulti che si
vorrebbe frequentare. Il tal amico lo si vorrebbe vedere a cena, in un
posto magari pieno di gente sfaccendata – ogni tanto è bello avere
attorno a sé persone occupate solo a lasciarsi vivere – e bevendo magari
un pochino più del solito, per poi bighellonare senza una meta precisa
per tutta la serata, cambiando magari via via i piani, per poi
rifugiarsi in un baraccio ancora aperto, dove magari si incontrerebbe
qualche altro relitto della notte, il tutto beninteso senza guardare
l’orologio, senza fretta, è bello non avere fretta, e non avere l’ansia
di divertirsi, e proprio per questo ci si diverte, come succedeva
appunto quando ancora non si era adulti, finché appare l’alba, l’alba
alla fine di certe notti finisce sempre per apparire, è esperienza
comune, e allora uno comincia a fare gli ultimi discorsi, a bere i
bicchierini riepilogativi, c’è una gaia solennità nella conclusione
delle notti insonni passate con un amico, una sazietà di parole e di
empatia, stordente ma anche tonica, e volendo si potrebbe andare a
dormire nello stesso posto, non importa se non è tanto pulito, se c’è
un’anatra fricchettona che becchetta sul tavolo disastrato della cucina,
prima accadevano cose così, perché è bello dire buona notte agli amici,
sparare le ultime cavolate fumando le ultime sigarette. Niente di tutto
questo: ci si vede a mezzogiorno per un boccone in tutta fretta, con
gli occhi tirati sui lati dalle rispettive preoccupazioni, il respiro in
punta di polmoni a causa della compressione sulla cassa toracica, e poi
ci si saluta, e ognuno corre per la propria strada piena di buche e
tranelli. Senza bere alcolici, perché poi appunto ci sono le grane da
affrontare, ci sono tante cose da fare: è più saggio evitare le
sonnolenze. Qualche volta prima di lasciarsi si scrocca una sigaretta a
qualcuno, ed è una trasgressione minuta e in fondo deludente, un
impossibile omaggio al tempo passato. Quando ci si separa resta la fame
di amicizia, come quando si deve interrompere un pasto dopo i primi
stuzzichini, o troncare sul nascere un cosiddetto rapporto sessuale.
Quando
si è adulti non si può dire niente a nessuno, intendo le cose un po’
delicate, perché ormai l’esperienza ha insegnato che le persone a cui
confidano i segreti vanno a raccontarli alle consorti e queste a altri
soggetti, i quali preavvertiranno altri ficcanaso ancora, e insomma ne
conseguiranno solo immensi problemi. Una degli inconvenienti dell’essere
adulti è proprio quello, la condanna al silenzio. Cercando bene negli
occhi degli adulti si coglie l’anelito prorompente a schiantare
l’omertà, a forzare con le corde vocali l’isolamento. Molti adulti
pagano un terapeuta, che è un individuo remunerato appunto per stare
zitto, per non spifferare a terzi nemmeno le peggiori nefandezze.
Quando
si è adulti si ha l’esperienza. L’esperienza è un sortilegio malefico
che toglie lo smalto alle superfici più seduttive, che fa vedere lo
scheletro e i prodromi di putrefazione, che scippa ogni sorpresa del
finale. Uno osserva una leggiadra ragazzina, e si vede davanti la
matrona appesantita e pedissequa che diventerà, sente una frase, e
avverte sullo sterno i supplizi e i cadaveri che soggiacciono o
subentreranno, capta un sorriso appena incrinato su un lato, e penetra
le faglie annesse e connesse, il destino tragico che le ammanta. Ogni
adulto farebbe di tutto per liberarsi della propria esperienza, per
essere di nuovo intonso e vergine, e invece l’esperienza lo segue
dappertutto, come un’ombra che ghiaccia la schiena, come una letale
zavorra.
Quando si è adulti si fanno le cene. Alle cene tra adulti
ci sono anche le mogli insopportabili degli amici, o i mariti
insopportabili delle amiche, o anche solo insignificanti, o terrifici, e
bisogna sorbirseli. Le cene si pianificano per tempo, come anche il
lancio dei razzi e le esposizioni universali, perché si è tutti molto
occupati, e di solito quando viene il momento non si ha più tanta voglia
di cenare in quel modo lì, con quelle mogli o mariti lì, si vorrebbe
piuttosto uscire a mangiarsi un panino con il primo venuto. Alle cene
tra adulti si finge di non essere adulti, che è il modo migliore per
essere davvero adulti. Si alza il tono della voce, si dicono stronzate,
si ride fino alle lacrime, si beve più del dovuto, si è un po’ lascivi: è
tutta una parodia, nel fondo si sa che si è saldamente adulti. A
ricordarcelo ci pensano poi i piatti sporchi e la cucina da mettere a
posto, l’esibizionismo della fattura del gas appesa al calendario.
Quando
si è adulti si lavora per mantenersi, e sovente da soddisfare ci sono
anche altre bocche, perché quando si è adulti si procrea. Si procrea per
avere l’impressione di aver fatto qualcosa nella vita, visto che si
comincia a prendere atto che questa è sprovvista di senso, per
sentimentalismo, per condizionamento culturale, per plagio, per
assicurarsi una copertura infermieristica nella vecchiaia, per bontà
(per accontentare qualcun altro), o anche solo per ignavia, per
etologico richiamo degli ormoni, assecondando la sete di futuro dei
propri geni. I figli non possono concepire che si possa essere adulti,
la vedono per la condizione incresciosa che è, ma nello stesso sono
attirati e rincuorati, almeno in un primo tempo. Non possono immaginare
che loro stessi un giorno saranno in quello stato patetico.
Quando
si è adulti bisogna stare a osservare stoicamente il decadimento del
proprio corpo, come un capitano che assista impotente all’affondare
della propria nave. La carne inflaccidisce, i capelli si diradano e
imbiancano, la faccia si raggrinzisce: è davvero molto spiacevole.
Vengono poi malattie gravissime, quasi sempre mortali. Se la vita
cominciasse da vecchi, o anche da vecchissimi, poi si avrebbe la
soddisfazione di muoversi via via meglio, di vedere la propria pelle
distendersi, di sentire che le energie aumentano, di essere più
ottimisti: sarebbe una successione nello stesso tempo più razionale e
più piacevole. Sul finire ci aspetterebbe una vacanza ludica e ben
assistita, coronata da un auspicato rientro in un accogliente ventre
materno. E invece si deve sottostare senza lamentarsi alla propria
decomposizione, facendo finta di niente.
Quando si è adulti si ha
paura. Si ha paura di diventare vecchi e di morire. E proprio per parare
il terrore ci si imbozzola nell’oblio delle attività: si lavora, si
corre, si arrampica, si pedala, si viaggia, si pianifica, ci si allena,
si tramena, si lotta, si fa carriera, si litiga, si teorizza, si
costruisce e si disfa, si rischia, si battono primati, si prega, ci si
edifica, ci si immerge in apnea, si svolge attività di volontariato, ci
si stressa, si scrive, si scoprono nuove leggi scientifiche, si cerca di
distinguersi in modi anche minimi, anche grotteschi, si amoreggia, ci
si droga, ci si annienta a piccole dosi, ci si racconta frottole. Quando
si è adulti si rimpiange il tempo in cui non si era ancora adulti,
senza considerare che a quell’epoca non si aveva cognizione della
libertà che si sarebbe perduta, e quindi nemmeno allora si era felici.
Certe
persone sono più dotate per fare gli adulti, altre meno, altre ancora
hanno invitti corpi di bimbi, fieri spiriti fanciulleschi: non
impareranno mai a fare gli adulti, e non ci provano nemmeno. Ma anche
molti anziani, compresi quelli con un passato più talentuoso, smettono
di inscenare la commedia, per fatica o usura gettano la spugna, e di
punto in bianco tornano fanciulli. Alcuni neonati ancora afoni hanno per
converso negli occhi saggezze e distacchi di adulto, hanno già bruciato
le tappe: ci si domanda come abbiano fatto. Si dice che gli scrittori
non diventino mai adulti, ma è una panzana: sono uguali agli altri, si
sforzano solo un po’ meno, profittano con scaltre occhiate di ingenuità
dell’aurea tardoromantica che avviluppa il loro ufficio.
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