Lunedì 29 Ottobre 2012 12:52
Per chi voglia provare
a comprendere qualcosa del caos italiano, cioè della solo
apparentemente inconciliabile orgia di conformismo e anarchia che ci
sovrasta e ci attraversa e ci appartiene con grande evidenza negli
ultimi tempi – quella frana stucchevole che qualcuno prova a stringere
al collare troppo stretto di formule (a propria volta molto furbe e
molto povere) quali “declino” o “perdita di competitività” – un
tentativo di messa a fuoco può consistere nel guardare all’oggi
attraverso quattro vecchie opere d’ingegno che dell’Italia fecero la
propria ragion d’essere.
Come quando, dall’oculista, la sovrapposizione di varie lenti (nessuna esclusa) porta a decrittare la successione di lettere che prima ci apparivano indistinte, osservare la scena italiana attraverso la lastra del Gattopardo, a propria volta piantata davanti a quella dei Viceré, dei Promessi sposi, e dietro questa quella che tutte le precede (il Discorso sopra lo stato presente dei costumi degli italiani di Leopardi) dà finalmente a ciò che sembrava piatto e impenetrabile un’idea di tridimensionalità. A essere poco chiaro non è infatti ciò che accade in scena – le maschere di Grillo, Minetti, Berlusconi, Bossi, Polverini, D’Alema e così via sono di un’autoevidenza che lascia senza appigli – ma la possibilità stessa che un simile spettacolo non solo sia rappresentabile, ma trovi pure un pubblico pagante. Alla scena appartengono infatti anche comprimari e spettatori. Come dice il cantautore: “nessuno si senta escluso”. In Italia meno che mai.
Come quando, dall’oculista, la sovrapposizione di varie lenti (nessuna esclusa) porta a decrittare la successione di lettere che prima ci apparivano indistinte, osservare la scena italiana attraverso la lastra del Gattopardo, a propria volta piantata davanti a quella dei Viceré, dei Promessi sposi, e dietro questa quella che tutte le precede (il Discorso sopra lo stato presente dei costumi degli italiani di Leopardi) dà finalmente a ciò che sembrava piatto e impenetrabile un’idea di tridimensionalità. A essere poco chiaro non è infatti ciò che accade in scena – le maschere di Grillo, Minetti, Berlusconi, Bossi, Polverini, D’Alema e così via sono di un’autoevidenza che lascia senza appigli – ma la possibilità stessa che un simile spettacolo non solo sia rappresentabile, ma trovi pure un pubblico pagante. Alla scena appartengono infatti anche comprimari e spettatori. Come dice il cantautore: “nessuno si senta escluso”. In Italia meno che mai.
Com’è
possibile allora per esempio che mentre la lingua ufficiale del Paese
prova allo specchio vaghi accenti protestanti riempiendosi la bocca di
parole quali “rigore” e “sobrietà”, allo stesso tempo – non fuori dalla
scena, attenzione, ma su palcoscenici sufficientemente esposti da
risultare ignoti fino quando qualcuno scopre esattamente ciò che si
sarebbe aspettato di trovare – si usino i soldi pubblici per allestire
festini ai limiti dell’irrapresentabile per eccesso d’iperrealismo
(l’affaire Polverini-Fiorito) i quali riuscirebbero nell’impresa di
disgustare allo stesso modo Renato Guttuso e Albert Speer? E quale
segreto moto dell’animo spinge le presunte vittime (o meglio: le sempre
autoproclamatesi tali), alternativamente: a) a disprezzare con violenza
ciò che fino all’altro ieri si era magari condito di rispetto, quando i
motivi di biasimo erano lampanti, seppure “in sonno”, sin da allora; b) a
sentirsi ferocemente più soddisfatti che feriti dalla conferma del
proprio precedente biasimo; c) a invocare, in entrambi i casi,
l’intervento di un terzo sempre diverso da se stesso per rimettere a
posto le cose?
L’aspetto
più curioso è proprio questo. Quando in Italia esplode uno scandalo
(quello della Regione Lazio è solo il più recente e qui valga giusto
come paradigma), i proletari e gli esclusi da qualsivoglia spartizione
chiedono giustizia ai propri rappresentanti, urlando la propria impotenza. L’opposizione chiede giustizia alla maggioranza, rivendicando la propria impotenza. La maggioranza chiama in causa un sempre fantomatico Sistema, lamentando la
propria impotenza (“governare gli italiani non è difficile, è inutile”,
Giolitti o Mussolini a seconda della vulgata), e poi si appella
all’arbitrato del Preside(nte) della Repubblica. Il Presidente è quasi impotente
per via istituzionale, ma la richiesta di una sua presa di posizione
chiama spesso per chissà quale affinità quella del papa, il quale,
infatti, spesso interviene per mezzo dei propri cardinali (attenzione! a
propria volta spesso il papa è ovviamente et infallibilmente
impotente davanti alle macchinazioni dei cardinali), che a loro volta
(talmente parte in causa la Chiesa in via sostanziale negli affari
italiane da potersi permettere di non esserlo in via formale) non
possono consumarsi in altro che in una reprimenda.
Insomma,
nessuno in Italia è mai parte in causa. Al limite, siamo tutti parte
lesa. Eppure, quei proletari erano andati in visibilio quando il loro
leader del momento riempiva l’ampolla con le acque sacre del dio Po
(adesso il dio si chiama internet). Quelle casalinghe e quegli aspiranti
manager col diploma di geometra acquistato per corrispondenza l’avevano
difesa a spada tratta, la pagliacciata del “contratto con gli italiani”
in diretta nazionale. Quel ceto medio riflessivo, a furia di
riflettere, si era dimenticato di chiedere conto ai propri segretari
della mancata risoluzione del conflitto di interessi mentre erano al
governo per ben due volte (per tacere della Bicamerale). Perché insomma
in Italia, il Presidente del consiglio ostenta le stesse mani legate che
all’ultimo disoccupato sembrano un motivo sufficiente per il vitalizio
che non otterrà mai? Da dove viene, questo oceanico delirio d’impotenza?
Per
provare a rispondere, dobbiamo trasferirci per un attimo nel Seicento
manzoniano, e cioè un “momento” appena successivo all’Ottocento di
Leopardi. I promessi sposi, se non ci fosse il superiore cielo
della Provvidenza, sarebbe tutto schiacciato (come in effetti è) sotto
quello dell’occupazione spagnola. Se c’è un concetto che nel capolavoro
manzoniano è umiliato in modo così onnicomprensivo da poter
alternativamente vestire i panni sia del vizio che della virtù è quello
di autodeterminazione. Autodeterminati non sono Renzo e Lucia, che
infatti non possono sposarsi. Non è libero delle proprie azioni don
Abbondio, e figuriamoci (“il povero curato non c’entra; fanno i loro
pasticci tra loro, e poi... se la cosa dipendesse da me...”). Non lo
sono i bravi rispetto a don Rodrigo, e quest’ultimo è talmente un
poveraccio nella categoria dei prepotenti – così rozzo, superstizioso,
grossolano – che si limita ad amministrare un potere i cui limiti gli
sono fisiologici. Non lo è fra’ Cristoforo, la cui azione più
risolutiva, nel finale, si limita allo sciogliere il voto di castità di
Lucia. Meno che mai capace di autodeterminazione è poi il popolo nel suo
unico momento di (finto) protagonismo: la rivolta milanese causata dai
rincari del pane è la quintessenza della rabbia cieca e autodistruttiva.
Insomma, del populismo.
La peste, quella sì, è invece risolutiva. E l’autodeterminazione
della peste (se così si può dire) è a propria volta interessante per
due motivi. Da una parte non è mai ozioso ricordare che l’epidemia, nei Promessi sposi,
la portano i Lanzichenecchi, cioè i mercenari tedeschi che combattevano
nella guerra di successione del Ducato di Mantova: la soluzione,
insomma, arriva dall’esterno. Se volessimo risalire ancora
indietro nei secoli, potremmo per esempio dire che la peste è una forma
(un’orrenda forma, l’ennesima incarnazione mai del tutto risolutiva) del
veltro-Montefeltro di cui Dante parla nel I Canto dell’Inferno. E viene poi addirittura dall’Esterno,
la peste manzoniana, se è uno dei nomi con cui la Provvidenza può
occasionalmente travestirsi. Se infine (per non lasciare all’Italia come
unica possibilità l’intervento divino) volessimo imbarcarci nell’arduo
ma forse non del tutto sterile tentativo di secolarizzare la Provvidenza
stessa, ricorderemo che l’ultima redazione dei Promessi sposi
si conclude nel 1842, a meno di vent’anni dall’Unità d’Italia. Esiste
insomma una speranza al di qua del cielo: viaggia sul motore della
Storia, è praticamente dietro l’angolo.
Quando tuttavia Federico De Roberto pubblica I Viceré – romanzo che, per fedeltà d’affresco, è forse secondo solo ai Promessi sposi,
e ci sarebbe da discuterne – è ormai il 1894. Dall’Unità d’Italia sono
passati trent’anni, e ai più avvertiti è chiaro che il Risorgimento non
ha avuto e non sta avendo chissà che effetti palingenetici. L’intento di
De Roberto era quello di raccontare, proprio a cavallo del passaggio
dai borboni all’Unità, la “storia d’una gran famiglia (siciliana, gli
Uzeda sono di Catania) la quale deve essere composta di quattordici o
quindici tipi, tra maschi e femmine, uno più forte e stravagante
dell’altro. Il primo titolo era Vecchia razza: ciò dimostri l’intenzione ultima, che dovrebbe essere il decadimento fisico e morale d’una stirpe esausta”.
La
stirpe esausta che invece De Roberto finisce per raccontare attraverso
gli Uzeda, è quella degli italiani tutti. Mai, in un romanzo, la lotta
fratricida, la cupidigia, la dissolutezza morale, il trasformismo erano
stati raccontati con tanta ferocia (una ferocia che ad esempio non ha Il Gattopardo)
e mancanza di prospettive. De Roberto, a differenza di Manzoni, non ha
davanti neanche il fantasma benigno dell’evento storico che al contrario
si è appena consumato – e anche in fondo se l’avesse, gli basterebbe
forse frugare negli intestini di una qualunque famiglia agiata della sua
terra per capire come gli italiani covino in sé, da qualche secolo, un
tale seme degenerativo che solo un fatto storico così potente da
assumere le sembianze dell’evento metafisico sarebbe in grado di
estirpare (un’epidemia? una rivoluzione? e in modo ancora più
rivoluzionario: la collettiva presa di coscienza di essere un popolo con
delle responsabilità e quindi, finalmente, con delle possibilità di
cambiamento?)
Ecco
allora che al posto del tentennante don Abbondio c’è il dissoluto padre
Blasco: sboccato, donnaiolo, sempre impegnato ad accumulare ricchezze e
a seminare zizzania tra i parenti. Ecco il trasformismo impetuoso di
Consalvo e quello comico e mediocre di don Gaspare (da sinistra a destra
e da destra a sinistra a seconda di come soffia il vento parlamentare).
Ecco i raggiri sull’eredità orditi a danno dei fratelli per tutto il
romanzo da don Giacomo. Ecco infine il millantatore che vive a scrocco
(il Cavalier Eugenio), la zitellona implacabile (donna Fernanda),
l’amante del lusso e delle belle donne (don Raimondo). E, tutti loro,
devastati da una sete di potere talmente arida e insulsa (uguale per
intensità ma contraria per essenza a quella di Faust e Macbeth) da
risucchiarli nel proprio stesso gorgo senza altri danni se non
soprattutto quelli inferti a se stessi.
Quando esce Il Gattopardo
siamo alla fine degli anni cinquanta del Novecento. Con alle spalle
l’Italia quasi un secolo di storia (nonché un’opera come quella di De
Roberto) dire che “tutto cambi perché tutto resti com’è” sembrerebbe la
scoperta dell’acqua calda. Se non fosse che Il Gattopardo (così stilisticamente più elegante, ma così meno vasto, potente, mobile e ricco de I Viceré)
ha il merito di mettere ancora meglio a fuoco – con il nitore
dell’allegoria, o forse del correlativo oggettivo – qualcosa che
nell’opera di De Roberto si ottiene solo dalla somma delle parti. E cioè
il fatto che l’Italia (o meglio: gli italiani) sono un gioco a somma
zero. L’immagine in questione è offerta dal principe di Salina che
osserva il cosmo con il telescopio (il telescopio azimutale Merz, il
telescopio equatoriale di Lerebours & Secretan, il telescopio
altazimutale di Worthington che furono di Giulio Fabrizio Tomasi, il
bisnonno di Giuseppe Tomasi di Lampedusa a cui il protagonista del Gattopardo è
ispirato). Si potrebbe dire, come sembrerebbe suggerire il romanzo, che
don Fabrizio Salina osservi il cosmo per trovare una pace e soprattutto
una perfezione di cui la sua terra e il suo tempo così mediocre
sembrano essere l’assoluta smentita. Ma a scavare più a fondo, quelle
costellazioni – così fredde, lontane, perfette, immutabili – sono anche
una tremenda conferma della “vanità del tutto” di cui l’Italia sembra a
propria volta la più evidente incarnazione terrena.
Essere il popolo sostanzialmente più filosofico di tutto il mondo civilizzato (coloro che, senza nemmeno doversi prendere il disturbo di teorizzarlo nei libri, vivono come se tutto fosse vano) è uno dei fuochi che ancora ardono nel Discorso sopra lo stato presente dei costumi degli italiani che
Leopardi scrisse nel 1824. I francesi lo teorizzano con i loro grandi
filosofi, scrive Leopardi, ma gli italiani sono di fatto (fuori dalla
pagina, si potrebbe dire) più cinici dei francesi senza bisogno delle
speculazioni che la Francia regalò al Settecento d’Europa. Questo è
possibile perché all’ipertrofia di un carattere nazionale non
corrisponde né una nazione né un’idea di società. Gli italiani, scrive
Leopardi, non sentono il bisogno di controllarsi tra di loro (se non con
le armi dello scherno e della delazione); gli è sconosciuto cioè
quell’“onore” personale che è tale solo se te lo riconoscono anche gli
altri – a patto, quindi, che ogni singolo ispiri le proprie azioni alla
virtù condivisa. Ma una virtù condivisa e sanzionata socialmente, in
Italia non esiste. Tramontata l’età del mito, morto Dio e il timor di
Dio (e ancora, per estremizzare il concetto: non c’è bisogno delle
illuminazioni di Nietzsche in Engadina, poiché in Italia si fa
sostanzialmente a meno di Dio sin dal Seicento), soltanto il vincolo
sociale – ontologicamente fittizio, ma fondamentale – o al limite solo
la paura di un biasimo che trovi concorde il corpus civico può ispirare
le nostre azioni a qualcosa di costruttivo. Ma gli italiani “sono
continuamente occupati a deridersi in faccia gli uni e gli altri” con
una violenza, una ferocia e soprattutto una nulla stima di sé che
lascerebbe al tappeto il rappresentante di qualunque altro popolo
d’Europa ma non noi. Al contrario, per gli italiani una simile
inclinazione rischia di cronicizzarsi così tanto da diventare un asse
portante. Questo, nel 1824.
Per
verificare quanto Tomasi di Lampedusa non fosse nel torto, basti
pensare a quanto il borbonico “facite ammuìna” si reincarni
stagionalmente a ogni nuovo dibattito pubblico nelle penne dei
“professionisti dell’opinione e dell’antiopinione”. Ma per capire quanto
De Roberto, e ancora più Leopardi avessero reso così bene l’attitudine
autodistruttiva che paradossalmente ci tiene in piedi (ma a quale
prezzo?) basta invece farsi un giro su internet. La Rete (non solo in
Italia, ma noi siamo campioni della specialità) sta diventando nelle sue
forme più degenerative un ricettacolo di delazioni, insulti e
rivendicazioni a basso costo (cioè senza quasi mai poterselo permettere)
che sembrano la più attuale ricrudescenza di quel “deridersi in faccia
gli uni e gli altri” di cui scriveva Leopardi. La sostanziale mancanza –
dentro e ovviamente fuori dal mondo virtuale – di serie sanzioni
sociali (e uno sberleffo non lo è) per i propri piccoli o grandi atti di
vandalismo, bullismo, irresponsabilità o leggerezza, fa sì che questi
si moltiplichino senza sosta, con la novità che, come si diceva
all’inizio, ci sentiamo tutti dalla parte della ragione e,
contemporaneamente, parte lesa.
Potrei
fermarmi qui, e abbandonare il quadro alla sua sconfortante evidenza.
Eppure, se devo interrogare l’ottimismo della volontà, credo di trovare
in fondo al pozzo un paradossale motivo di speranza nella necessità di
considerare ogni singolo italiano responsabile, e il popolo italiano
invece parte lesa. Questa parte lesa, dovremmo insomma immaginarla
all’occasione come staccata dalle nostre persone. È in nome di questa
parte lesa – in disaccordo, spesso anzi in vero conflitto con ogni
singolo – che è sensato ingaggiare una lotta. Il che significa oggi lottare anche contro se stessi.
Che
il popolo italiano muova a pietà se non a commozione, è difficile
smentirlo. Quando mai è finito, infatti, il Seicento di Manzoni? Quando
mai, cioè, il nostro popolo ha vissuto un genuino e nobile momento di
protagonismo e autodeterminazione in grado di infondergli fiducia? Non è
accaduto nella seconda metà del XVI secolo (abbiamo avuto una
Controriforma senza il balsamo di una Riforma – ricordo un passaggio
molto bello di Aldo Busi sulla Bibbia di Diodati, che avrebbe
regalato agli italiani una lingua finalmente affrancata dall’artificiosa
padronalità curiale se non fosse stata messa al bando). Non è accaduto
con il Risorgimento (dove al massimo il protagonismo tocca un’élite di
massa) e solo in piccola parte con la Resistenza. Per venire a eventi
più recenti, basti pensare all’entusiasmo con cui i singoli italiani
(umiliando per l’ennesima volta il popolo di cui fanno parte) hanno
reagito a Tangentopoli all’inizio degli anni novanta, invocando il
cambiamento ma poi delegando ogni cosa all’uomo della provvidenza
(allora i giudici, più tardi Berlusconi, e adesso cosa?)
È
questo sentirsi insomma sempre fuori dai giochi, sempre impotenti in
prima persona, sempre alienati da un nobile protagonismo, cioè da una
seria e reale responsabilità – in attesa perenne del veltro, della
peste, dell’uomo della provvidenza, di un altro che si pigli la
responsabilità che non vogliamo assumerci per la parte che ci compete,
pretendendone però poi l’impossibile guadagno – è questo, credo, uno dei
peggiori difetti di noi individui italiani.
Si tratta di una colpa dalla quale, se può essere sollevata l’idea di un popolo, non dev’esserlo, invece, ogni singolo
– per il quale, nel proprio foro interiore, dovrebbe sempre pesare
l’onere della prova. Ognuno dovrebbe sentirsi chiamato a scardinare (a
distruggere in se stesso, dunque a trascendersi in un’ottica civile) ciò
che lo rende alieno alla comunità senza la quale il suo profilo
identitario pure andrebbe a disgregarsi. È attraverso la cruna di un
simile paradosso che abbiamo oggi il dovere di passare.
di Nicola Lagioia
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