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domenica

Adesso apro il vetro . . .


 

Nostra Signora

 

28 ottobre, 2012



palazzomoresco




Attiguo a casa sua stava un palazzo moresco, denunciato dal salmastro, orientale come un riflesso sbiadito, scrostato sotto le volte degli archi e sulle cupole, abitato l’inverno da cristiani comodi che nell’estate pagana cedevano le due ali sul mare, per non morire di fame. Proclamata la fine dello stato d’assedio, quel palazzo sarebbe diventato il quartier generale dei turchi che, di tra le viole del cielo assolato, avevano ammainato le mezze lune.
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Di qua dai vetri caldi, appannati dal tempo del suo alito, la fronte, il naso, le labbra premute come un mosaico sui cristalli, inseguiva i gabbiani sfiorare il dilettantismo dei merli e delle guglie. Quella costruzione era un sunto di storia, oppure no. Era il suo carnefice convertito, proprio quando toccava a lui, cinquecento anni fa. Le esecuzioni degli ottocento e più martiri ebbero luogo in un campo di grano, e quei coloni inturbantati mieterono spighe d’oro ingemmate in cinabro, impazziti all’incanto di quella miniera di fede.
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In quell’occasione egli pensò che sarebbe stato facile incontrarsi un’ultima volta. Era un santo a pregarla. Perciò le aveva scritto: «vieni, stavolta è grave», e la risposta di lei fu: «stai tranquillo, ora non posso davvero, vedrai che tutto andrà». Pose il capo su un sasso e la sognò. Si ridestò che non lo avevano ancora decapitato. Guardò in alto, cercando il suo carnefice e lo trovò crocefisso. Gli spiegarono che era stato così punito perché aveva all’improvviso mutato fede. Poi gli dissero di levarsi e andarsene. Lui non aveva osato insistere, lo avevano umiliato, non c’è dubbio, ma l’avrebbe rivista.


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La fronte contro i vetri, madido di sudore, si giustiziava in un bagno turco, figurandosi che tutto fosse andato diversamente. Se fosse stato vero il palazzo moresco, sarebbe anche vero oggi che le sue ossa figurerebbero sui velluti rossi nella cripta della cattedrale di Otranto, incastrate nel prodigio che le vuole ancora rivestite di carne dopo tanto, come in quell’altro tutto suo miracolo, che dopo tutto la pensava ancora.
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Stava immobile, come nell’urna perduta, ma, a differenza degli altri martiri, oltre ai pezzi di fegato, alle membrane, ai tendini, aveva conservato gli occhi, così che gli altri lo vedevano in un’urna, mentre lui li vedeva in un’altra urna.
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Era quello un meriggio di poche visite, tanto che avevano deciso di chiudere la cripta e riaprirla magari a sera, quando il numero dei pellegrini sarebbe senz’altro cresciuto.
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Ai piedi dell’urna, fuori, sul balcone, i gigli bianchi e rossi erano appassiti. Si rammaricò della negligenza dei chierici.
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Avrebbe voluto mettere uno specchio, all’esterno, sul davanzale. Ma che ne sapeva il vescovo della sua vanità? Dio mio! Vantavano la sua umiltà, come, probabilmente, al paese si gloriavano di non sapere niente sul suo conto.
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Sarebbe rimasto comunque così, immobile, il volto deformato dalla pressione contro i vetri, sfigurato nel sole. Poteva anche fare a meno di uno specchio sul davanzale. «Mi vedo visto», pensava.
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E il suo viso grondava ormai dentro una confusione di perle e diamanti, astri diurni che, tremanti, cadevano a spegnersi e risalivano accesi dalle lacrime, disinteressate e sante, a tempestarlo di gioielli diversi, fino a smarrire il volto, tutto un tesoro segreto in lui. Chi lo avesse ammirato dal di fuori, lo avrebbe solamente veduto piangere, anche perché non avrebbe osato forzare i legni dell’urna e frugare; avrebbe dannato le mani in carezze impossibili, non avrebbe trovato mai due perle nere. Aveva ragione lei a tranquillizzarlo. Nessuno gli avrebbe cavato gli occhi.
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Se ne stava immobile in attesa che nessuno se lo portasse via. Per quanto si sforzasse, non riusciva a inventarsi il sacrilego che frantumasse l’urna e lo abbracciasse. Non capiva nessuno il suo valore. Meravigliavano d’altro al suo altare, del suo fegato rovinato ma presente ancora, delle sue cartilagini, della carne in trionfo sulla putrefazione, nonostante la morte che conduceva, degli occhi infine. Trovavano naturale perfino che si muovesse. Lo incensavano. Non era certo il suo successo sui devoti a toccargli il cuore. Il cuore glielo avrebbe strappato un ladro, se non avesse avuto paura o devozione. Alle dieci di sera, sarebbe stato un gioco da bambini.
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Si provò a tentarsi diversamente. E rabbrividì sotto il bronzo e la maschera di perle. Si controllò e prese a studiare, tanto i martiri delle urne vicine non lo avrebbero visto. Trovò forse una soluzione più semplice e tacque un «adesso apro il vetro». Nessuno glielo avrebbe impedito. Disapprovò intanto la leggerezza con cui lo lasciavano incustodito giorno e notte. Quanto poteva costare un guardiano? Se ne sarebbe andato. Andato via da sé. Sarebbe stato tanto peggio per loro. Poteva aprire da sé il cristallo dell’urna. Aveva anche lui una chiave del cancelletto della cripta. Se ne sarebbe andato. Avrebbe usato molta attenzione. Una volta fuori, si sarebbe recato a far visita a qualcuno, o magari all’ufficio del dazio o al grande albergo, non sarebbe stato un problema. Li avrebbe compromessi. Avrebbero arrestato tutti. Sarebbe andato a visitarli tutti, un arresto in massa. Si sarebbe comunque fatto sorprendere in compagnia numerosa. Li avrebbero trovati con la refurtiva. Quanto vana ogni giustificazione! Avrebbe, dal canto suo, arroventato il furore dei perquisitori, mostrando in qualche modo anche il suo sdegno per il vilipendio perpetrato. Avrebbe fatto un miracolo. Si sarebbe spostato, o saltellato o chiuso gli occhi, magari perdonandoli, tanto non li avrebbero perdonati. Lo avrebbero riportato in processione, tra miriadi di ceri ardenti alla cattedrale, lo avrebbero rinchiuso nell’urna, vegliato per l’avvenire da quattro guardiani armati in adorazione.
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Stava appunto per andarsene. Il sole, tramontando, insanguinava i gioielli sul suo viso, gocciante come una melagrana appena aperta, illuminata da un altro sole occidente per conto suo.
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Alle prime luci si disse che avevano riacceso le lampade ai suoi piedi. Era improbabile ormai un visitatore.
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Tentò con un dito, meccanicamente lo stipite. Era quello il lato dei cardini. Stava per sollevare la mano sinistra, quando udì passi approssimarsi sul mosaico della navata. A conferma dei suoi timori, udì pure stridere il cancelletto della cripta. E aprirsi. Il chierico guida si scostava per immettervi qualcuno. Lei, senza scampo. Era entrata. Si portò religiosamente al centro e ruotò timorata su se stessa. Il chierico illuminò le urne. Gli occhi suoi si smarrivano tra gli ossari. Egli udiva le voci sommesse, per quanto il vetro gli consentiva. Una guida che illustrava a una donna la storia di quelle reliquie… bisogna pensare che  Otranto aveva a quel tempo trentamila abitanti, era tanto allora. Lo sbarco dei turchi fu improvviso. La città fu letteralmente distrutta dopo lungo assedio, in un mare di sangue. Si ebbero due specie di martiri, quelli caduti in difesa delle mura, martiri della patria, e quelli, in numero di ottocento, i superstiti che, posti di fronte all’alternativa di rinnegare il Cristo per Maometto rifiutarono e, condotti in un campo di grano — ecco perché figurano delle spighe tra le membrane e le ossa, vedete — furono giustiziati, decapitati o impalati, sono martiri della fede. In questa cripta noi custodiamo soltanto le reliquie di trecentosessanta martiri, perché i corpi degli altri, Ferdinando d’Aragona se li portò a Napoli. Vedete ancora la carne, le dita. Questo qui ha conservato addirittura gli occhi!
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Lei chiuse i suoi e si sentì venir meno. La guida le domandò se stava male. Lei rispose di no, che stava bene, che avrebbe voluto restare sola un momento, solo un momento, a pregare, era possibile? Il chierico acconsentì e si ritirò.
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Adesso lui la fissava, inginocchiata ai piedi del suo altare. Si dissero poche cose, quelle permesse dallo stupore. Articolazioni atone, per di più deformate dal cristallo.
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— Guardami, — le sorrise delle stesse perle cadutegli dagli occhi. — Sei tornata!…
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— Piangi sempre… — gli sorrise disarmata e — adesso voglio, — finì piegando gli occhi, — adesso voglio!
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Dolcemente egli schiuse l’urna e mosse un piede avanti sul balcone. Lo abbracciò una crisi di pianto mai provata prima. Si piegò su se stesso, le labbra attaccate alla balaustrata, baciando ripetutamente sempre una pietra.
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Stava per lasciarsi cadere di sotto, ma intravide qualcuno per la strada rivolgersi allarmato alla sua volta. E colse un glicine.

da Nostra Signora dei Turchi, di Carmelo Bene, SugarCo, Firenze 1978

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