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mercoledì

Richard Yates: nessuna pietà



15 ottobre 2012 • pubblicato da minimaetmoralia 
 

Dalla prefazione di Paolo Cognetti a Undici solitudini di Richard Yates  
(Immagine: Edward Hopper.)




 di Paolo Cognetti

Sul tavolo di Richard Yates, sopra le foto di figlie avute da donne diverse, sopra bottiglie e portacenere e pagine scritte e stracciate e riscritte, è stata appesa per anni questa frase: «Gli americani sono sempre stati inconsciamente convinti che tutte le storie avranno un lieto fine». Sono parole di Adlai Stevenson, la grande speranza democratica degli anni Cinquanta: candidato due volte alla presidenza e due volte sconfitto da Eisenhower, e infine superato da un concorrente dotato di carisma, gioventù e bellezza, John Fitzgerald Kennedy. La frase che Yates amava, quella su cui meditava scrivendo, è l’uscita di scena di un perdente: uno che avrebbe potuto cambiare le cose, ma non ce l’ha fatta, uno la cui storia non ha avuto nessun lieto fine.

Gli anni Cinquanta, l’alba dell’America contemporanea, sono l’epoca in cui questo libro fu composto. Le prime Solitudini comparvero in rivista all’inizio del decennio, ma furono raccolte e pubblicate solo nel 1962, in seguito al buon successo del primo romanzo di Yates, Revolutionary Road. Idealmente, questo è perciò un libro d’esordio: una raccolta di racconti scritti tra i venti e i trent’anni, in cui sono contenuti molti semi che germoglieranno nei romanzi successivi.

New York nel dopoguerra è un’isola brulicante. In città la giovane borghesia si mescola a intellettuali e artisti esuli dall’Europa, e i reduci appena sbarcati trasformano le strade in una festa mobile: notti in bianco, scorribande innaffiate dal whisky e ritmate dal jazz, donne da conquistare. È la stessa città ubriaca descritta vent’anni prima da Fitzgerald, che di Yates è il maestro, nel racconto “May Day”:

C’era stata una guerra combattuta e vinta, e la grande città del popolo conquistatore era addobbata con archi trionfali e vivida di fiori bianchi, rossi e rosa lanciati dalla folla. Nella grande città non c’era mai stato tanto splendore, poiché la guerra vittoriosa aveva portato con sé l’abbondanza, e i mercanti avevano affollato la metropoli insieme alle loro famiglie, venendo dal Sud e dall’Ovest, per godersi i lussosi banchetti e assistere ai festeggiamenti. Un giorno dopo l’altro le fanterie sfilavano nei viali e tutti esultavano, perché i giovani reduci erano puri e coraggiosi, con denti sani e gote rosa, e le giovani donne del paese erano vergini e belle.

Anche Yates è tornato dalla guerra. Ha una lieve forma di tubercolosi e incurabili sogni di gloria. In pochi anni, dopo il ricovero e la dimissione dal sanatorio, percorre tutta la discesa agli inferi del poeta romantico: si sposa, ha una figlia, raccoglie i soldi per ripartire, viaggia tra Parigi e Londra senza vedere Parigi né Londra ma rinchiudendosi nelle camere in affitto a scrivere i suoi racconti, torna a New York squattrinato e deluso e trova lavoro nella pubblicità, nelle riviste, nelle case editrici, comincia a scrivere romanzi e a ricevere rifiuti, subisce le prime crisi depressive e continua a bere sempre di più, viene lasciato dalla moglie e infine festeggia il suo esordio letterario. Meglio di qualsiasi riassunto biografico, quest’epoca è descritta nell’ultimo racconto del libro, “Costruttori”, un ritratto dell’artista da giovane in cui l’aspirante scrittore è fratello di altri eroi autodidatti della letteratura americana, da Arturo Bandini a Martin Eden: un appartamento sudicio, una serie di lavori frustranti e un matrimonio a rotoli, il fondo cercato e toccato in nome della fede nel proprio talento. Tanti altri episodi di quel periodo sono rintracciabili in Undici solitudini: a trentasei anni, il giorno dell’uscita del libro, Yates aveva alle spalle un’intera vita da raccontare.


Lui stesso non ha mai nascosto la natura autobiografica delle sue storie. Alcune sono reminiscenze di età passate: gli anni della scuola, dell’esercito, del sanatorio. Altre, che ritraggono il matrimonio e il lavoro negli uffici, costituiscono nitidi presagi dei suoi romanzi successivi. L’unico racconto ambientato in Europa è un omaggio a Fitzgerald, e l’ultimo, composto ormai nel ’61, guarda i precedenti con l’ironia malinconica con cui un uomo maturo, sopravvissuto a tanti naufragi, contemplerebbe le fotografie di un se stesso più illuso e ancora intatto. Nonostante le differenze tutti i racconti possiedono una voce, la stessa voce, e impressionano per come compongono un progetto organico: è lo sguardo sul mondo che rende tante storie diverse un solo libro, e trasforma protagonisti estranei nei personaggi di un unico universo. Il progetto è la declinazione, un racconto dopo l’altro, della parola solitudine.

Come molte storie newyorkesi, quelle di Yates sono storie in movimento. Ogni racconto è un pendolo tra la giovinezza e l’età adulta, la vita coniugale e l’avventura sessuale, la reclusione e la liberazione: è un moto di andata e ritorno tra due stati opposti dell’anima che prende spesso la forma di un pendolarismo geografico tra città e periferia. Anche questo è un segno dei tempi: in quegli anni, mentre a Manhattan compaiono la Beat Generation, il movimento per i diritti civili, la musica del Greenwich Village e i primi germogli dei favolosi anni Sessanta, oltre le sponde dell’Hudson e dell’East River nasce il modello dell’American way of life. Il Connecticut, Long Island, il New Jersey, i sobborghi di New York si popolano di una nuova piccola borghesia, né urbana né rurale: bravi padri di famiglia che ogni sera tornano dai grattacieli di midtown alle villette prefabbricate, mogli annoiate e premurose, abili tanto nell’allevare marmocchi quan­to nel miscelare vermut e gin, vicini ficcanaso, bambini che scorrazzano tra il vialetto d’ingresso, l’altalena e il prato tosato di fresco. Nel cielo di questo paesaggio idilliaco incombe una nuvola scura, la paura della bomba atomica e della minaccia sovietica, spaventapasseri provvidenziale per l’ordine costituito. «Negli anni Cinquanta c’era una voglia di conformismo diffusa in tutto il paese», dirà Yates. «Una specie di cieco, disperato attaccamento alla sicurezza a tutti i costi, esemplificato politicamente dall’amministrazione Eisenhower e dalla caccia alle streghe di McCarthy».

Un’intera generazione di scrittori ha affondato i denti in quel conformismo. Altri, nella stessa epoca, hanno scelto modi più spettacolari: la militanza politica, la ribellione autodistruttiva, le droghe o il sesso come pietre dello scandalo da scagliare in faccia al sistema. Mezzo secolo dopo, oggi che quelle pratiche ci appaiono esotiche e sbiadite quanto le cartoline dei loro happy days, il modo di Yates sembra ancora senza tempo: raccontare il conformismo con la sua stessa voce, e il controcanto della sua figlia più bella e triste che è la solitudine. «Se il mio lavoro ha un tema, sospetto che sia un tema molto semplice», ha detto lo scrittore. «Gli esseri umani sono irreparabilmente soli, e lì c’è la loro tragedia».

Così, con l’alchimia miracolosa dei grandi libri, Undici solitudini ritrae allo stesso tempo un’epoca e una condizione universale dell’essere umano. I personaggi di Yates sono uomini immobili nella massa fluttuante, illuminati dall’occhio di bue della scrittura, colti nel momento in cui la solitudine provoca in loro uno scatto: desiderio, violenza, commozione, o solo un piccolo spostamento vitale dopo il quale, probabilmente, torneranno mansueti a occupare il loro posto. Questo istante di anomala lucidità è il pianto di Myra in “Nessun dolore”, o il disegno di Vinny nel “Dottor Geco”, o il tentativo di linciaggio di John Fallon nel “Mitragliere”.

Eppure, la violenza è uno sfogo più che una ribellione. Non porta con sé conquiste o cambiamenti, non redime i peccati, e serve solo ad andare avanti con un po’ più di vergogna, un po’ meno vanità. Yates non prova compassione per i suoi personaggi, e questo forse è l’ostacolo maggiore per il lettore. I protagonisti di Carver, a cui viene ogni tanto accostato, sono altrettanto miseri e meschini ma raccontati con amore, ed è facile innamorarcene a nostra volta. Yates, invece, è uno che ti tratta male. Di solito comincia presentandoti un personaggio emarginato, vittima di esclusione sociale o affettiva, pieno di speranze e voglia di cambiamento. Ti lascia immedesimare con lui quel tanto che basta, e ti offre anche un nemico su cui riversare la rabbia sua e tua. Subito dopo, quando il racconto sembra avere imboccato il classico sentiero accidentato dell’eroe, il punto di vista comincia a cambiare. Un po’ alla volta il buono non sembra più così buono. I comprimari si rivelano inutili ed egoisti. Il cattivo in compenso comincia a farci pena, perché soffre ancora di più dell’eroe e spesso ne è la vittima. Così, c’è un bambino solo perché rifiutato dai compagni di classe, e una maestra ancora più sola di lui quando, cercando di farlo sentire accettato, non produce altri risultati che attirarsi il suo odio (“Il dottor Geco”). C’è una donna ancora più sola di un marito rinchiuso in clinica, perché deve sopportare il peso morale del suo stesso adulterio (“Nessun dolore”). Ci sono un ufficiale dell’esercito e una maestra troppo pignola, ancora più soli di reclute e alunni a cui somministrano angherie quotidiane (“Jody ha il coltello dalla parte del manico”, “Il regalo della maestra”). C’è il misero mecenate dell’aspirante scrittore, un altro aguzzino triste che riceve il colpo di grazia quando il suo protetto lo abbandona (“Costruttori”). La solitudine dell’antagonista è un colpo al cuore delle nostre certezze di lettori, perché è evidente che quei carnefici pieni di buone intenzioni siamo proprio noi. Alla fine del racconto non sappiamo bene cosa provare. Per usare una parola cara a Yates, ci sentiamo soprattutto disturbati. Abbiamo intuito qualcosa che preferivamo non sapere, ed è qualcosa che parla di noi, perciò non ci resta nient’altro da fare che chiudere il libro e farci i conti, nella vita questa volta, se ne abbiamo il coraggio.

Molti scrittori hanno amato la voce di Yates per lo stesso motivo che ne ha allontanato i lettori: è onesta, spietata, disturbante. Sono loro che l’hanno restituita a noi dopo che era sparita per decenni: Richard Ford, Tobias Wolff, Robert Stone, i “realisti sporchi” che hanno imboccato quella strada a loro volta, ognuno a suo modo. Ann Beattie ha spiegato bene come i personaggi di questi racconti siano moderni in quanto estranei a se stessi: pieni di sogni e fiducia, convinti di fare del loro meglio, salvo rivelarsi per quello che non sapevano di essere, cioè soltanto crudeli, nel momento che conta. Sono uomini e donne che ignorano la propria mediocrità, e la vedono risplendere all’improvviso come una folgorazione. In questo le storie di Yates ricordano quelle di Flannery O’Connor, un’altra scrittrice poco gradita al pubblico, un’altra voce fastidiosa, che rispose alle critiche in questo modo: «Io difendo con le unghie e con i denti il diritto dell’artista di scegliere un aspetto negativo del mondo da ritrarre. Naturalmente ti è consentito guardare nell’oscurità solo se hai un lume che ti permetta di vedere». Nel suo caso il lume fu quello cristiano della fede: è la Grazia a incendiare quell’attimo, e non può manifestarsi se non con brutalità, perché la conversione è un atto di violenza. Nel caso di Yates è un lume più fioco, quello dell’ironia, che forse permette di vedere al buio ma non sembra prevedere forme di salvezza. «E dove sono le finestre?», scrive alla fine del libro, come per aiutarci a capire:

Da dove entra la luce? Bernie, vecchio amico, perdonami, ma per questa domanda non ho la risposta. Non sono neppure sicuro che questa particolare casa abbia delle finestre. Forse la luce deve cercar di penetrare come può, attraverso qualche fessura, qualche buco lasciato dall’imperizia del costruttore. Se è così, sta’ sicuro che il primo a esserne umiliato sono proprio io. Dio lo sa, Bernie, Dio lo sa che una finestra ci dovrebbe essere da qualche parte, per ciascuno di noi.

Neppure Richard Yates ha trovato luce nella sua esistenza. Dicono che fosse un uomo scontroso, spesso intrattabile, troppo severo con se stesso e con gli altri per non essere rifiutato. Come scrittore ebbe la maledizione di scrivere per primo il suo romanzo di maggior successo. Come uomo, la sua vita fu scandita da matrimoni falliti e trasferimenti continui, e popolata fino alla fine da tre amici immaginari: la scrittura, il fumo e l’alcol, compagni fedeli e traditori che lo avrebbero portato alla morte. Nonostante questo, Yates non era uomo da guardarsi indietro. Niente rimpianti o recriminazioni. «Soffermarsi su ciò che sarebbe potuto essere è nostalgia», disse una volta, «e credo che su questo possano riflettere importanti scrittori. Per me è molto più soddisfacente e proficuo soffermarsi su ciò che è».

Ciò che è, a quindici anni circa dalla sua morte, rappresenta una fortuna per noi. Come lettore io ho un nuovo libro nello scaffale dei grandi racconti americani, tra quelli di Salinger e quelli di Cheever, che nel mio cuore gli sono fratelli. Come scrittore ho scoperto un maestro, e vorrei tanto essere tra gli allievi che lo incontrarono, celebri o sconosciuti o per sempre aspiranti, alle cui prove Yates applicava l’onestà e il rigore che riservava alle proprie, e di cui parlava così:

E dannazione, vorrei che fossero tutti qui adesso, in carne e ossa, così potremmo sederci e bere e litigare e affrontare gli argomenti più selvaggi e violenti della narrativa, e finire a cantare canzoni e raccontare barzellette e fare gli scemi: e poi, quando tutti se ne andranno a casa per riprendersi dalla sbronza e rimettersi al lavoro, mi piacerebbe proprio stringergli la mano e augurargli buona fortuna. Perché la fortuna pura e semplice, dopotutto, è la cosa di cui uno scrittore ha più bisogno. Penso che questo sia il mestiere più duro e solitario al mondo, questa folle, ossessiva faccenda del cercare di essere un bravo scrittore. Nessuno di noi sa mai quanto tempo gli rimane, né come sarà in grado di usare questo tempo, e in ogni caso, anche se lo userà bene, il suo lavoro dovrà sempre affrontare la terribile, inesorabile indifferenza del tempo stesso.
 




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