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venerdì

In memoria di Ciprì e Maresco




3 febbraio 2010 • pubblicato da Nicola Lagioia 
Questo pezzo è apparso nel numero di febbraio della rivista Lo Straniero.





Memorabile apparizione



Agli inizi degli anni Novanta, quando la televisione pubblica italiana non era irreversibilmente comatosa come oggi, sugli schermi di una Rai Tre allora diretta da Angelo Guglielmi iniziarono a comparire degli strani frammenti filmati. Si trattava di brevi scenette in bianco e nero che – ad avere un occhio allenato – sembravano una summa perfetta del cinema di Pasolini e di quello di Buñuel, dell’inquietante bellezza dell’epoca del muto (da Buster Keaton in giù) e dell’umanità stremata del Beckett della Trilogia. Erano immagini che avevano attraversato indenni la carnalità morente della Grande bouffe di Ferreri e i silenzi di Antonioni (ritenevano cioè la «crisi della borghesia» un problema già digerito e espulso da molto e molto tempo), avevano sostato dubbiose nel deserto del Simon di Buñuel e nell’atroce spazio concentrazionario del Salò pasoliniano. Poi, però, si erano spinte avanti – e il luogo da cui parlarono ad alcuni milioni di telespettatori narcotizzati dalla tv commerciale italiana che all’epoca era già l’unica tv italiana possibile, era un posto in cui nessuno era mai ancora stato. Era successo in passato, sugli schermi televisivi della penisola (Hommelette for Hamlet di Carmelo Bene per esempio, mandato in onda su Rai 3 nel 1987), e sarebbe accaduto sempre più di rado.
Nonostante i debiti quasi dichiarati con le proprie ascendenze artistiche, le sequenze di «Cinico tv» – questo il nome del programma – rivendicavano un’autorialità assolutamente matura e inconfondibile, identica solo a se stessa. Ciò che secondo Harold Bloom è per la letteratura «l’ansia dell’influenza», cioè la prova che gli artisti devono sostenere per liberarsi dei Padri e diventare grandi, Daniele Ciprì e Franco Maresco – questo il nome degli autori del programma – l’avevano superata già brillantemente.
Le scene di «Cinico tv» mostravano una Sicilia da Wasteland se T.S. Eliot si fosse fatto le ossa nello Zen di Palermo, periferie urbane desolate e degradate, ricolme di macerie e scarti industriali eppure anche toccate da una grazia ruvida e irriducibile: uno scenario da dopobomba e preistorico al tempo stesso, dove mura diroccate, strade dissestate, pratoni fotografati con l’orrendo skyline dei palazzi popolari riuscivano a saldare la fine della Storia con l’intestimoniabile atmosfera che si sarebbe potuta respirare a Uruk, il primo insediamento umano di cui si abbia notizia. Addentrandosi senza movimento in questo paesaggio impossibile (cioè abituando l’occhio ai quadri immobili disegnati da Ciprì e Maresco), ci si rendeva presto conto che Pasolini e Buñuel e lo stesso Pirandello – quest’ultimo spesso citato dai due autori come punto di riferimento – in quel Sud, in quell’Italia, in quel mondo non ci avevano mai messo piede. O, forse, lo avevano fatto in maniera diversa. Il problema era che (volendo trovare per forza un nume tutelare) a un certo punto sembrava che quelle immagini le avesse girate Qohèlet in persona. Ma che ci faceva lo spirito dell’Ecclesiaste a Palermo, negli anni Novanta del XX secolo, e per di più testimoniato dalla televisione nazionale?
Ai margini di quei margini della civiltà, c’erano poi delle figure umane. Anche in questo caso, si trattava di «tipi» del tutto sconosciuti al pubblico televisivo. I protagonisti di «Cinico tv» erano freaks, scarti, rottami di forma antropomorfa capaci di nobilitare i disperati delle più affollate e malsane metropoli del Terzo e Quarto mondo. Una schiera indimenticabile di obesi in mutande, balbuzienti, schizofrenici, alienati mentali, tutti affetti da disturbi che andavano dal meteorismo alla satiriasi depressiva, tutti rigorosamente maschi – quasi a lasciar intendere l’impossibilità in un simile contesto di una grazia femminile, o anche solo di una compagnia domestica, di una consolazione sessuale – e tutti stretti in una solitudine invincibile che però, ancora una volta, non aveva a che fare con i rovelli dei vari Roquentin e Dino di sartriana o moraviana memoria. Non era cioè una solitudine (o peggio ancora un’alienazione) borghese, non era crepuscolare o malinconica e non generava nevrosi da affidare all’impotenza di un analista, ma era stremata e folle e insondabilmente allegra al tempo stesso. In una parola: comica. Niente a che fare quindi con l’umorismo, ma comicità allo stato puro – e dunque ferocia e grazia allucinata –, come quella che possiedono i personaggi di Kafka e alimenta i balletti infernali di Céline. Cugino germano di quei personaggi era l’esaltato profeta Iokanaan, che nella Salomè di Carmelo Bene insulta Erode e famiglia in dialetto siciliano farfugliando degli sgangheratissimi «figghia di buttana! figghia di Babilonia!», per di più vestito con la maglia della nazionale italiana di calcio sulle note di una canzone da telefoni bianchi: «se vuoi vivere senza pensieri / dalle donne ti devi guardar» (così come del resto era vestito da ciclista postatomico il compianto Francesco Tirone, uno dei personaggi di «Cinico Tv», e non è raro, nelle opere di Ciprì e Maresco, che un momento drammatico venga esaltato da un sottofondo di musica neomelodica o dagli scarti di magazzino dei musicarelli anni Sessanta). Meglio ancora, però, quei personaggi ricordavano i Murphy e i Molloy beckettiani, e la voce dell’Innominabile quando (parafrasando) dice: «non posso continuare, continuerò». Con l’ulteriore differenza che mentre le creature di Beckett sono giacomettiane – tanto estreme quanto più ridotte a un fil di ferro –, la radicalità dei personaggi di Ciprì e Maresco è tale proprio perché non divorzia (mai!) da una carnalità in disfacimento ma prepotentemente viva nonostante tutto. Né Kafka né Beckett avevano ritenuto di poter bussare alla Porta della Legge in maniera così palpitante. E a dire il vero, i vari Paviglianiti, Tirone, Giordano, Cirrincione, Roccocane (questi, i nomi di alcuni degli abitanti della wasteland palermitana) non bussavano ma inciampavano rovinosamente in quell’ultima soglia di significato che è la vera mistica dell’arte del Novecento e, proprio per questo, rischiavano di meritarsi uno straccio di risposta (sia pure incomprensibile) che era invece temporaneamente (cioè perpetuamente) negata ai vari K, Murphy, Molloy e compagnia bella. È in questa prospettiva forse – dalla contrada del Caos di inizio Novecento al caos senza più assilli di fine secolo – che il cerchio tracciato dall’amato Pirandello viene chiuso dai due autori cinematografici proprio attraverso un’apertura spiazzante: non semplicemente verso l’uomo post-novecentesco, ma verso quello catastroficamente post-rinascimentale. Meglio ancora, l’oltreuomo nietzschiano che Nietszche non avrebbe mai immaginato (non super- ma sub-), un uomo che, pur facendo a meno di un oramai inservibile cogito cartesiano, mantiene intatta la sua forza e il suo mistero. Anzi – incredibilmente – li libera.

I protagonisti di «Cinico tv» (che saranno traghettati in blocco nella stupefacente trilogia cinematografica di C&M) non si limitavano poi a marcire tra strade interrotte e case diroccate. Venivano continuamente perseguitati da una voce-off che infieriva su di loro dandogli urbanamente del lei. Li costringeva per esempio a ripetere all’infinito una parola nel tentativo, fallimentare in partenza, di correggerne l’esatta dizione (il signor Giordano, confinato in un canile pubblico, dove si nutre delle croste di pane offerte dalle dame di carità, che dice «detoriare» in luogo di «deteriorare»…), o li metteva in crisi con insolubili problemi da scuola elementare (voce off: «fratelli Abbate!», fratelli Abbate: «dica!», voce off: «pesa più un chilo di paglia o un chilo di ferro?», fratelli Abbate: «ferro!», voce off: «ferro o paglia?», fratelli Abbate: «paglia!», voce off: «paglia?», fratelli Abbate: «chilo!»), o li provocava fino allo sfinimento (voce off: «buona sera», signor Tirone: «buona sera», voce off: «Tirone, lei è un pezzo di…», signor Tirone: «un pezzo di persona seria!», voce off: «un pezzo di m, inizia con la emme…», signor Tirone: «un pezzo di motore!», voce off: «guardi, le voglio regalare un’altra lettera. Lei è un pezzo di me…», signor Tirone, dignitosissimo: «non può essere un ‘pezzo di merda’, perché non mi chiamo ancora così»).
La cosa interessante è che, da queste prove (che avrebbero gettato nello sconforto qualunque abitante del consesso civile messo di fronte alle – parallele – umiliazioni che sono il vero valore di scambio del mondo all’alba del XXI secolo) i personaggi di «Cinico Tv» non ne uscivano mai sconfitti né veramente umiliati. Nella scenetta successiva erano infatti sempre lì, indistruttibili: Tirone con la sua tuta da ciclista, Paviglianiti con il suo meteorismo, Roccocane con la sua sessualità pavloviana, i fratelli Abbate con la loro ossessione misogina. E niente forse illumina questo aspetto come la scena in cui il signor Giordano è sepolto vivo ma non ancora – non più – disperato (voce off: «soffre?», signor Giordano, con la pazienza canonica che Bloom attribuisce a Kafka: «qualche privazione, ma poteva andare peggio…»), e seppure non tutto vada appunto per il meglio (voce off: «le manca il sesso?», signor Giordano: «lei capisce… in questa situazione non si può avere tutto»), il seppellito signor Giordano – il quale ci tiene a precisare che laggiù si sta molto meglio che quassù – è più lontano dalla morte di tutti gli spiritualmente morti che affollano la superficie (voce off: «mangia?», signor Giordano: «i vermi», voce off: «ma… non dovrebbero essere i vermi a mangiare lei?», signor Giordano: «in questo caso è il contrario: sono io che mi mangio i vermi»).
Da tutto ciò se ne ricava che l’unico elemento fuoriposto di «Cinico tv» era proprio l’attributo del titolo. Di cinico, quelle scenette, non avevano niente. Non tanto per il fatto che il vero cinismo gonfiava col suo vuoto gli altri programmi televisivi. Ma soprattutto perché, superato lo shock culturale che Ciprì e Maresco portarono nella tv pubblica al momento del loro battesimo del video, superate le risate nervose che coglievano gli spettatori le prime volte che avevano a che fare con i vari Giordano, Paviglianiti e co. – le stesse, per intenderci, che riecheggiavano nelle sale cinematografiche durante le scene più disturbanti e incomprensibili di Mullolland Drive o del cronemberghiano Crash –, addentrandosi meglio nel significato di quei personaggi e di quella voce-off, veniva al contrario da domandarsi: oseremmo mai definire cinica o sadica o banalmente provocatoria la Voce che, per scommessa con il suo Arcangelo più bello, sottopone il paziente coriaceo indistruttibile Giobbe a tutte quelle prove?



Pochi gradi di separazione


Che l’opera di Ciprì e Maresco non sia banalmente provocatoria, né vuotamente cinica, né squallidamente umoristica, lo si capisce meglio quando i due iniziano a lavorare sulla misura media e lunga. Nei documentari, ad esempio. Cioè quando ritraggono Palermo nella sua dimensione spettacolar-religiosa (Grazie Lia, dedicata alla santa patrona della città) e religiosa-spettacolare (il bellissimo Enzo, domani a Palermo! sull’equivoca ma vitalissima agenzia di spettacolo di Enzo Castagna, storico personaggio del settore e indispensabile passepartout per chiunque voglia girare un film nel capoluogo siciliano o solo organizzare un festival musicale: dal Francis Ford Coppola del Padrino parte II a “Peppuccio” Tornatore ai neomelodici siculo-napoletani che si esibiscono nelle piazze della città), o quando affrontano in maniera non riverente e per questo profonda uno dei loro fratelli maggiori, Pier Paolo Pasolini, ai cui abboccamenti palermitani durante la lavorazione de I racconti di Canterbury è dedicato Arruso (in italiano «omosessuale», ma rendono meglio i dispregiativi «frocio» o «ricchione»), nel corso del quale vengono intervistate diverse persone che testimoniano o millantano amicizie e collaborazioni con il poeta scrittore e regista emiliano, e che rispondono all’immancabile voce off come e meglio dei sottoproletari di Pasolini (uno per tutti Saverio D’Amico, collaboratore proprio di Enzo Castagna, il quale, di fronte alla volutamente banale, squallidamente novecentesca domanda sugli intrecci tra arte e inclinazione sessuale di Pier Paolo Pasolini, supera il problema a pié pari rispondendo con una massima involontariamente degna della «rosa senza perché» di Angelus Silesius: «Il regista è regista. L’arruso è arruso»).
La Palermo dei documentari non è la landa da day after di «Cinico tv», ma la città che conosciamo tutti. Gli uomini che la popolano, non hanno a propria volta imboccato la via del non ritorno lungo la quale sostano indefinitamente i personaggi della striscia televisiva. Non l’hanno ancora imboccata… Esiste infatti una parentela abbastanza riconoscibile tra i borborigmi di Paviglianiti e i farfugliamenti di uno degli artisti che si esibiscono in una festa di quartiere durante Enzo, domani a Palermo! In questo modo – se mai non lo fosse stato prima – diventa chiaro come le scene di «Cinico tv» riguardino l’Altro fino a un certo punto. Certo, non siamo ancora precipitati in via ufficiale da quella parte, ma siamo già pericolosamente in bilico. Anzi, noi siamo la frana. Quel Noi a cui i freaks di «Cinico tv» alludono continuamente, non popola inoltre soltanto i bassifondi della Palermo reale, e non è semplicemente identificabile con l’immobilità del Sud proletario e borghese, ma riguarda (e contagia) tutti quanti. Risale cioè idealmente la piramide sociale e non risparmia nemmeno chi vive nelle stanze dei bottoni. Anche da quelle parti, non è più infatti il tempo di Talleyrand e di Cavour. Nemmeno quello dei Churchill e dei De Gasperi. Non sarebbe forse degna di figurare in un rovesciamento di «Cinico tv» la parodia di un capo di stato che si esprimesse alla stregua del signor Giordano o dei fratelli Abbate? e non sarebbe, oggi, un simile spettacolo più verosimile che parodico? un leader, ad esempio, che dicesse nei suoi discorsi pubblici frasi del tipo: «è tempo, per la razza umana, di entrare nel sistema solare!», o «le nostre importazioni provengono in sempre maggior quantità dall’estero!», o «sono orgoglioso di stringere la mano a un coraggioso cittadino iracheno a cui Saddam Hussein ha tagliato le mani»? A guardar bene, non si tratta infatti di una parodia, ma del 43° presidente degli Stati Uniti George W. Bush. E, del resto, che un certo tipo di idiozia e stallo della ragione (più da disfunzione etologica che psichiatrica) fossero così democratiche da non risparmiare i piani alti, lo aveva già capito Stanley Kubrick nel Dottor Stranamore, dove la slapstick comedy che espropria dell’interno le regole dell’organizzazione e i continui cortocircuiti psicomotori che fanno a brandelli il sillogismo non tanto provocano, ma (bomba o non bomba) sono già la fine del mondo. O almeno, del mondo come lo conosciamo noi, cioè quello che presumeva di essersi per sempre tirato fuori dall’oscurità del Medio Evo.


L’ombra e la grazia?


Se con «Cinico tv» Ciprì e Maresco ci parlano di come diventeremo (e di come, nel profondo e nell’inconfessabile privato, forse in parte siamo già ma non vogliamo ammettere di essere, il che ci umilia e ci distrugge come non sono umiliati né distrutti gli eroi della trasmissione), e con i documentari ci danno la dimostrazione dei pochi gradi di separazione che intercorrono tra noi e l’apocalisse, sono i film a rappresentare il vero affondo. Con Lo zio di Brooklyn, Totò che visse due volte e Il ritorno di Cagliostro, la poetica degli unici autori che probabilmente sono riusciti a fare arte con il cinema italiano degli ultimi anni si rivela prepotentemente (il primo film), arriva a un momento di vera perfezione (il secondo) e si rimette in discussione (l’ultimo). Ma soprattutto, per il discorso che qui stiamo facendo, i film di Ciprì e Maresco mostrano – come non avevano potuto ancora fare le strisce televisive (mancava il tempo per l’organizzazione drammaturgica) e i documentari (troppo ancorati all’al di qua del mondo sublunare) – che la presunta forza iconoclasta dei loro autori è tutt’altro che un semplice caricare a testa bassa. Al contrario, è una narrazione vasta e coerente (come può fare solo chi si è a lungo interrogato sulla storia della nostra cultura), «violenta e antipsicologica» (il violento, monolitico indagare il ceppo umano tutto intero che fu di Beckett, di Kafka, e prima ancora di Shakespeare), avente come proprio oggetto non una categoria o peggio ancora un’ideologia di uomo – vale a dire i forzieri dentro i quali l’espressione artistica cessa di respirare – ma il mistero (meravigliosamente inesauribile e ridicolo) dell’essere-umano-nel-mondo, ovvero l’obiettivo a cui ogni vero artista ha sempre puntato.
In tutti e tre i film ci sono i personaggi di «Cinico tv», che nella trasmissione interpretavano il lato estremo dei se stessi reali comparendo quasi sempre con i loro veri nomi e cognomi, e che qui – come per un definitivo attraversamento – interpretano in tutto e per tutto, anche nominalmente, degli alter ego. Nello Zio di Brooklyn una famiglia sottoproletaria di cinque fratelli è costretta da un gruppo di mafiosi a ospitare in casa propria uno zio enigmatico e silenzioso, mentre Il ritorno di Cagliostro è la storia degli sgangherati fratelli La Marca, sorta di Ed Wood palermitani che, col beneplacito del monsignor Sucato, fondano una catastrofica casa di produzione che nei loro sogni vorrebbe essere l’inizio di una Hollywood siciliana.
Ma è sul secondo lungometraggio che ci concentreremo, Totò che visse due volte, vero capolavoro del duo palermitano e pietra dello scandalo (idiota e assurdo) in cui venne gettato dalla Commissione censura, che prima cercò di bloccare il film in quanto degradante «per la dignità del popolo siciliano, del mondo italiano e dell’umanità» con particolare disprezzo per il «sentimento religioso», e poi contribuì al processo per vilipendio alla religione cattolica dal quale, al pari del Pasoloni della Ricotta, Ciprì e Maresco furono assolti.
Il film era effettivamente scandaloso, ma per i motivi opposti. In un mondo – soprattutto quello clericale italiano, con il suo enorme stuolo di leccapiedi laicissimi e santimoniosi al seguito – che ha cessato di interrogarsi sulla forza, la bellezza, il mistero del messaggio evangelico, niente risulta più provocatorio e scandaloso di chi questa indagine tenta invece di farla. Per un sentimento religioso autenticamente vivo, la blasfemia in formato audiovisivo dovrebbe essere rappresentata dai filmetti agiografici sui papi e sui santi che cercano di contenere nel proprio incubatoio arido e volgare (e dunque di neutralizzare, di distruggere) il messaggio evangelico. I primi che avrebbero dovuto levarsi in difesa di Totò che visse due volte sono dunque proprio il Vaticano e i giornali cattolici. Attaccandolo, o rimanendo in silenzio, dimostrarono un intimo disprezzo per il mistero della fede. L’universo cattolico, vale a dire, si esibì ancora una volta nel proprio feroce anticristianesimo.
Il film è diviso in tre episodi, «più che tre stazioni della via crucis, tre pale d’altare» le ha definite Emiliano Morreale. Nel primo episodio – un omaggio proprio alla Ricotta di Pasolini – Paletta, disperatamente alla ricerca di una donna, ruba da un ex voto la collana deposta per grazia ricevuta da un boss mafioso allo scopo di pagarsi un rapporto sessuale con la prostituta Tremmotori. Il secondo episodio è la storia di Fefè, ributtante e avido omosessuale di mezza età che si reca alla veglia funebre del suo amante Pitrinu, dalle cui dita di cadavere sottrae un anello da sempre desiderato (le atmosfere da Elsinore in Trinacria e brughiere macbethiane traslate in Sicilia che pervadono questo episodio contribuiscono tra l’altro a dipanare almeno in parte il mistero dell’assenza di attrici femminili nelle opere di C&M; non di personaggi femminili, attenzione, che invece ci sono ma sono sempre interpretati da maschi. Esibiscono cioè – come dimostra vividamente la scena dello zombi che vaga per il cimitero alla ricerca della sua fossa – il richiamo ai momenti più violenti, sensazionali e provvidenzialmente rozzi del teatro elisabettiano, Shakespeare in primis, che in questo modo entra a far parte degli spiriti tutelari che vegliano sul duo di Palermo).
Ma è il terzo episodio a portare a compimento questa ardita, ma mai spericolata interpretazione dei Testi Sacri. Qui, con la scorta dei due episodi precedenti, viene esplicitamente ri-raccontato il Nuovo Testamento: in una Palermo desertificata torna il Messia, Totò, e ci ritorna nel bel mezzo di una guerra tra mafiosi. Viene prima costretto dagli uomini di un clan a resuscitare il picciotto Lazzaro (disciolto nell’acido dai rivali) e poi, tradito dal gobbo Giuda – al quale sono stati promessi i favori della prostituta Maddalena –, viene a sua volta giustiziato nell’acido dal secondo Totò, cioè l’omonimo boss del gruppo avverso a quello a cui apparteneva Lazzaro.
Per toccare soltanto alcuni punti, tra i possibili, in grado di testimoniare la bellezza e la forza di questa ricerca, diremo che:
1) Gesù in Totò che visse due volte non è un trentenne, ma un vecchio dalla barba bianca, coi tratti somatici duri e spigolosi. Sembrerebbe un Messia che – proprio perché fuori tempo massimo nelle sue spoglie mortali – ha avuto il modo di riflettere sulla propria intera parabola (avvento, crocifissione, resurrezione) senza esserne mai venuto completamente a capo. È un Gesù potentemente ebraico e siciliano al tempo stesso, molto più vicino a quello di Marco (un messia irascibile, umano, incline all’ironia se non al sarcasmo) che a quello degli altri evangelisti. Tanto umano da non capacitarsi – al pari del Cristo sulla croce che teme l’abbandono del Padre – di come possa essere il figlio di Dio. Tanto che, quando riesce a resuscitare Lazzaro, il primo a esserne stupito è proprio lui. È inoltre un Cristo che sente il peso e il mistero della propria missione (emblematico il momento in cui, interrogato brutalmente dallo speculare boss mafioso prima di finire nell’acido, rilascia i muscoli del viso, si fa quasi tenero, alza gli occhi al cielo e dice: «che vuoi da me, sono stato incaricato…») È soprattutto però un Cristo che – appresa nella propria peregrinazione bimillenaria la dura lezione del Grande Inquisitore di Dostoevskij – sa benissimo che, anche dopo il suo avvento, il mondo resterà una landa veterotestamentaria, dominata da vendetta, violenza e mancanza di perdono. Tanto è vero che:
2) Il primo pensiero di Lazzaro, una volta resuscitato, non è quello di riconciliarsi con il genere umano, ma di vendicarsi dei propri assassini: senza neanche ringraziare il Messia o soffermarsi a riflettere sul proprio essere tornato dalla morte, al grido di «vendetta, vendetta! » si lancia subito verso quelli che, ancora più di prima, reputa i suoi nemici. I clan mafiosi, a loro volta, non si limitano a rappresentare il problema storico o sociale della Sicilia, ma personificano il potere e la violenza che stringono il mondo intero sin dalla notte dei tempi e – prima ancora della caduta dell’uomo edenico – gli Avversari per antonomasia. Anche qui, è emblematico l’incontro tra i due Totò, ognuno costretto proprio malgrado a interpretare il ruolo che fu dei loro padri in spirito (Totò-mafioso: «ma noi due non ci siamo già visti?», e Totò-Cristo: «può essere…»).
3) Disciolto nell’acido il Messia – restituito cioè al suo mistero – sulla croce centrale (le laterali sono occupate dal Paletta e dal Fefè dei due episodi precedenti) viene sollevato Minico, un malato di mente. Più che di una banale sostituzione credo si tratti dell’ultima finale transunstanziazione. Troppo carico di dubbi, intelligenza e troppo consapevole per essere anche del tutto innocente, il Messia-Totò si trasforma nel capro espiatorio perfetto. Talmente innocente e puro, adesso, da non essere riconosciuto nemmeno più dai suoi (i due ladroni lo guardano stupiti, le donne-maschi vestite di nero ai piedi della croce si domandano: «ma chi è questo?»).
4) Seppure brutti, sporchi e in via di disfacimento, gli indistruttibili personaggi di «Cinico tv» prestati a questa indagine sul sacro, sono infine gli ultimi depositari del peccato e della grazia. Proprio perché accettano (a differenza nostra) di esistere dall’altra parte, hanno la possibilità (a noi negata) di vivere pienamente il conflitto, le pulsioni e la sempre differita – ma proprio per questo, sia pur kafkianamente, reale – possibilità di salvezza. Sempre che esista, il Regno dei cieli da cui ci siamo autoespulsi è conficcato dentro di loro. E Totò che visse due volte è, semplicemente, un capolavoro della cinematografia contemporanea.


Postille


Il neorealismo e ciò che ne seguì, il movimento che portò il cinema italiano degli anni Cinquanta e Sessanta a diventare una delle massime espressioni artistiche di quel periodo a livello planetario, al proprio nascere fu osteggiato in patria in tutti i modi. Soprattutto a livello istituzionale. È celebre ad esempio il crugifige del sette volte Presidente del Consiglio Giulio Andreotti («I panni sporchi si lavano in casa»). Se non ci fosse stato il festival di Cannes che – tra fine anni Quaranta e inizio anni Cinquanta – costrinse il mondo ad accorgersi del nuovo cinema italiano, non è detto che le cose sarebbero andate allo stesso modo.

Nella primavera del 2009, a oltre dieci anni dalla sua uscita, Totò che visse due volte è stato presentato e distribuito in Francia, dove ha ottenuto un’accoglienza trionfale (da Le Monde a Le Figaro ai classici Chaiers du Cinéma). Il problema è che – a livello sociale istituzionale politico, e anche per ciò che riguarda la cosiddetta industria culturale –, l’Italia del 2009 si presenta come una wasteland ben peggiore di quella del dopoguerra, e non è detto che una Palma d’Oro, un Oscar, un Nobel siano sufficienti da soli a impedire la mattanza dei suoi migliori artisti.

Dopo infinite traversie e difficoltà (dai processi penali ai problemi distributivi e produttivi), Ciprì e Maresco non lavorano più insieme.

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