Translate

venerdì

Il voyeur e il dominio della letteratura

Lolita, la terribile storia che ha ispirato Nabokov


Pubblicato il da
  

Il primo segnale, a ben vedere, è spesso dato dalle copertine: generalmente, anche se non è una regola, vi è ritratto un volto ripreso di taglio, che nella mezzaluce punta lo sguardo in basso, verso il marchio dell’editore. Di solito si tratta di un volto maschile, con almeno un tatuaggio sul collo o una mezza sigaretta ficcata tra le labbra, ma può anche essere disegnato o perfettamente frontale e riconoscibile: l’importante è che si tratti del volto dell’autore. È così, ad esempio, per Nicolai Lilin – che è comparso finora su tutte le copertine dei suoi libri: l’autore, oltre che essere la mano che l’ha scritto, è anche la faccia, l’immagine del suo libro. La cosa non è di secondaria importanza: non sono un grafico, e raramente mi soffermo sulla bellezza o sulla bruttezza di una copertina; ho però da tempo una convinzione: quando una copertina è brutta, o sciatta, di solito è brutto o sciatto anche il contenuto. I dischi peggiori che ho nella mia discoteca hanno delle copertine orrende; i film più brutti che ho visto avevano delle locandine impresentabili. Così è, più o meno, anche per i libri. Ma come ci si deve comportare quando l’immagine con cui un libro si fa conoscere dai lettori è quella dell’autore? Che cosa ci si deve aspettare? Ci si deve aspettare, lo dico subito, che il testo risponda a quella che sembra una delle tendenze editoriali fondamentali di questi anni: il romanzo autobiografico (o fortemente connotato da elementi autobiografici), che narra esperienze di vita al limite ed è scritto da un esordiente che acquisisce il diritto di raccontare (e di pubblicare) proprio in virtù delle singolari caratteristiche del proprio vissuto. L’elenco dei titoli e degli autori non è lunghissimo, per il momento, ma è significativo: di Lilin si è già detto; a lui vanno almeno aggiunti, tra gli altri, Sandro Bonvissuto – il cui Dentro è la scoperta più recente di casa Einaudi –, e lo straordinario Terra matta di Vincenzo Rabito, contadino siciliano semianalfabeta che sul finire della vita si è inventato una lingua e ha scritto la propria – arrabbiatissima e meravigliosa – autobiografia; o Giovanni Ubezio, tassista milanese che ha scritto per Il Saggiatore Il cane che mi guardava e altri racconti del taxista, un’improbabile raccolta che ruota attorno alla vita quotidiana e al lavoro dell’autore; ma anche, in parte, la Babsi Jones di Sappiano le mie parole di sangue (Rizzoli), rielaborazione in chiave metafisica della propria esperienza di volontaria nell’ex Jugoslavia e, forse, Riccardo Gazzaniga, fresco di contratto con Stile Libero dopo aver vinto il Calvino con A viso coperto, romanzo incentrato sul rapporto tra le forze dell’ordine e gli ultras scritto da un autore che di mestiere fa il poliziotto.

 
Ma di che tipo di libri si tratta? Si tratta di libri che vengono pubblicati, appunto, in virtù del fatto che il loro autore è un personaggio che ha avuto una vita (vera o presunta) fuori del comune. In questi testi, dunque, ciò che sembra contare davvero è l’autorialità, non la letterarietà né il valore in sé dell’opera: in una parola, conta la vita di chi scrive e il fatto che chi racconta abbia la facoltà di dire al lettore: «Ciò che ti racconto è vero. È la mia vita, io ne sono il testimone». Una volta le autobiografie – vere o contraffatte che fossero – erano una prerogativa dei grandi personaggi, degli anziani scrittori: oggi, invece, le librerie sono piene di queste auto-testimonianze, che in più vengono pubblicate nelle collane normalmente deputate alla narrativa. Capofila di questo nuovo modo di intendere la letteratura è l’Einaudi, che ha arruolato nella sua scuderia alcuni tra gli esempi più vistosi di questa nuova tendenza e, appunto, li ha portati in libreria nella sua collana principale, quella dedicata alla Letteratura (con la maiuscola): i Supercoralli. Ci dev’essere, dietro queste scelte, una strategia precisa da parte degli editori, qualcosa che ha a che fare con una ridefinizione della narrativa e della letterarietà: inserire questo tipo di libri nelle collane di narrativa tout court, infatti, sposta inevitabilmente il baricentro della letteratura, perché comunica implicitamente ai lettori che, da oggi, essa è tale solo se è legata a doppio filo con la vita di chi scrive, solo se è la testimonianza di un vissuto. A me pare che la matrice di tutto questo sia in anni recenti il successo di Gomorra, il cui indiscutibile valore risiede proprio in questa sorta di patto implicito con il lettore: «Quello che ti racconto è vero perché io c’ero e l’ho visto» dice Saviano «Mi devi credere perché sono un testimone, e quello che stai leggendo è un pezzo della mia vita».
Qualcuno chiama questo progetto “varizzazione della narrativa”: si prendono alcuni stilemi da “storia vera” (quel tipo di libro in cui l’autore racconta la propria lotta con la malattia o un pellegrinaggio o la storia dell’adozione di un bambino) e li si rovescia nel modo romanzesco, tirando fuori una storia di vita appassionante, laterale rispetto alla produzione mainstream e, in più, confortata da un’indiscutibile dose di “verità”. Questo fenomeno ha in parte interessato anche il sorprendente bestseller italiano di quest’anno, Se ti abbraccio non aver paura di Fulvio Ervas: giunto al settimo libro per Marcos y Marcos, Ervas ha smesso di essere uno scrittore appartato grazie al fatto che ha raccontato una storia vera (non sua) che l’ha portato dritto in classifica.
Ma il punto non è la classifica, e nemmeno il valore di queste opere (ci sono, in questo filone, dei bellissimi libri, benché più spesso ci si trovi di fronte a dei diamanti grezzi): è la ridefinizione del dominio della letteratura. La letteratura è ed è sempre stata una costruttrice di mondi, ha sempre puntato a ricreare e a modificare l’immaginario: è piena di gente che scende all’inferno e da lì fa ritorno, di assassini idealisti, di diavoli gentiluomini, di balene bianche e cavalieri erranti. Che cosa succede se l’immaginario viene rideclinato e pensato come qualcosa che ha a che fare solo con la cronaca, con l’aderenza ai fatti e alle esperienze? Succede che il suo dominio si restringe, e che la letteratura non inventa più mondi ma si limita a restituire – benché da un punto di vista spesso molto originale e innovativo – l’esistente: i “romanzi con biografia” dicono che, oggi, il vero fulcro attorno a cui ruotano le narrazioni non risiede nei grandi personaggi, nelle storie, nell’invenzione, ma nell’esperienza, nell’assenza di filtro e mediazione tra scrittore e scrittura. Il tipo di lettore che queste operazioni vogliono intercettare è, di conseguenza, un voyeur delle lettere, qualcuno che è ancora attratto dalla dicitura “romanzo” nei frontespizi ma che, quando affronta un testo, vi cerca un’emozione in presa diretta, un io narrante che racconta solo ciò che ha visto o che ha il conforto del fatto realmente accaduto.
In linea di massima, il lettore di romanzi dovrebbe essere qualcuno che, nel contromondo delle lettere, cerca il verosimile, non il vero: a nessuno è mai importato realmente che la vecchia di Delitto e castigo fosse esistita, che vivesse davvero in quell’appartamento o che avesse una sorella sempliciotta. Ciò che contava era il discorso che prendeva le mosse dalla scena dell’accetta, erano la grandezza dell’affresco, la potenza del racconto e della trasfigurazione e tutte quelle categorie del pensiero che, da un fatto inventato, Dostoevskij era riuscito a mobilitare. Contava anche il fatto che, da lì, lo scrittore avesse costruito un mondo che si sarebbe poi sviluppato e compiuto nel corso di altri grandi romanzi: parte del piacere della lettura è anche seguire il percorso di uno scrittore, vederlo maturare ed esplodere. Uno scrittore che si presenta al mondo raccontando di sé corre, invece, un doppio rischio: quello di essere un one-book novelist (esaurita la propria storia, non è detto che tutti abbiano ancora cose da raccontare) o quello, atroce, di abbandonare il filone biografico e provare a riciclarsi nell’ambito della narrativa classica, misurandosi con un immaginario che la sua visione pareva aver escluso e scontando la pena, magari, di non saperlo fare.
 Andrea Tarabbia


Questo articolo è uscito sul numero 44 di IL, il magazine del Sole 24 ore, con il titolo E adesso parliamo di me.

Nessun commento:

Posta un commento